Regia di Bibo Bergeron vedi scheda film
Dopo Shark Tale, Bibo Bergeron torna a mescolare l’orrore con la favola romantica. Lo scenario, questa volta, è una Parigi di inizio Novecento, sommersa dalle acque della Senna, e nei cui cinema si proiettano i film di Georges Méliès. C’è anche un misterioso botanico che, in una grande serra, ha fatto crescere una giungla, all’interno della quale si nasconde un laboratorio pieno di strani intrugli che, se utilizzati da mani inesperte, possono causare effetti imprevedibili. È precisamente quello che accade quando il fattorino Raoul, arrivato a bordo del suo furgoncino di nome Catherine per effettuare una consegna, si mette a giocare con le provette. Il risultato dei suoi maldestri esperimenti sarà una pulce in formato gigante, alta due metri ed in grado di spostarsi, con un solo salto, da una parte all’altra della città. Il suo destino si incrocerà con quello di Lucille, giovane ed avvenente cantante di cabaret, corteggiata, suo malgrado, dal prefetto nonché aspirante sindaco della capitale. Il classico intreccio amoroso si interseca con il cinismo della politica ed i problemi legati al progresso tecnologico: i nuovi ritrovati della scienza possono produrre meraviglie (l’invenzione del cinema), ma anche nascondere devastanti pericoli (l’involontaria creazione di mostri che sfuggono al controllo); si prestano a strumentazioni politiche (l’inaugurazione della funicolare, sfruttata per una campagna elettorale) e, in ogni caso, non sono mai sufficienti a garantire il benessere e la sicurezza dell’umanità (la florida ed avveniristica Ville Lumière, su cui svetta il prodigio architettonico della Tour Eiffel, è messa in ginocchio da un’inondazione). Il film è pervaso dal senso della crisi, quello che ci coglie, a livello individuale o collettivo, quando alle nuove opportunità che ci sono offerte non corrisponde la nostra capacità di metterle a frutto nel migliore dei modi. Nel film si incrociano le occasioni perdute dagli innamorati timorosi di farsi avanti (il proiezionista Émile Petit, un omino piccolo ed insicuro) con l’uso avventato ed improprio di macchine, apparecchi, sostanze chimiche, dal dirigibile a pedali alle pozioni che fanno crescere fiori alti come sequoie. L’imperizia esplode in una fantasiosa spettacolarità, come si addice alla tradizione disneyana che, da L’Apprendista stregone in poi, ha fatto dell’ingenuità e dei relativi incidenti di percorso il punto di partenza di un viaggio capace di catapultarci fuori dalla realtà, scombinandone le leggi secondo una coreografia magica, che si manifesta in una visionarietà dall’anima melodica. Anche in quest’opera di animazione sono il ballo ed il canto ad avviare la fuga dal mondo, introducendo i momenti in cui è bene dimenticare la logica per abbandonarsi all’incantevole libertà del sogno, nella quale tutto è possibile, ed anche un insetto che vive attaccato alla pelle per succhiare sangue può trasformarsi in una stella del varietà nel cui petto batte un cuore di artista e di eroe. La narrazione è tecnicamente elaborata, come lo è, soprattutto, la sceneggiatura, carica di sfumature psicologiche e linguistiche, oltre che di riflessioni storiche e sociologiche: elementi diligentemente sviluppati, però forse un po’ troppo compressi all’interno di una trama scarna e convenzionale, che non regge il peso di quell’eccessivo sforzo di contestualizzazione a trecentosessanta gradi. Un monstre à Paris persegue la ricchezza di stimoli e la profondità di pensiero, ma in questo modo manca l’obiettivo dell’armonia estetica. Sono apprezzabili, però sporadici, i picchi di bellezza che si colgono all’interno di un fascino discontinuo: sono i pochi punti fermi in una tumultuosa ricerca della poesia, dell’umorismo, della caricatura umana, dell’incanto paesaggistico, che, nel loro multiforme insieme, non riescono, purtroppo, a ricostruire l’atmosfera vibrante e luminosa della Belle Époque.
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