Regia di Daniel Nettheim vedi scheda film
Una multinazionale dagli intenti poco chiari incarica un mercenario di eliminare gli esemplari rimasti della "Tigre della Tasmania", mammifero considerato estinto ma che probabilmente ancora sopravvive in lande desolate, che secerne una tossina potente: naturalmente l'uomo deve prelevare dei campioni dall'animale e portarli alla compagnia. Tipo ruvido, il protagonista si presenta come biologo e affitta una stanza presso una famiglia il cui capo è sparito, anch'egli sulle tracce del rarissimo predatore: sullo sfondo, uno scontro annoso tra gente del posto che non vuole concedere spazio ai nuovi venuti e chiede però nuove risorse per trovare posti di lavoro, e ambientalisti ostici all'ingresso di grandi industrie nella zona. La caccia sarà lunga e rara di soddisfazioni, ma forse l'unico esemplare rimasto, è ancora in giro: il cacciatore si ritroverà preda, ma di "colleghi". Un film uscito quattro anni fa, da noi arrivato solo nei canali televisivi a pagamento, tratto da un romanzo di Julia Leigh, che non risparmia crudezze ( più di una volta il protagonista ucciderà innocenti piccoli canguri per adescare il suo obiettivo) e abbozza però una riflessione filosofica sulla solitudine che riequilibra il racconto notevolmente verso il finale. A differenza di una pellicola americana, quelle australiane evitano la virata verso l'edificante, e lo sguardo tra l'animale, che fa una scelta, e l'uomo che la caccia, roso da mille dubbi, è il momento più bello del film. Dafoe, da tempo relegato a ruoli da comprimario de luxe nelle grosse produzioni, dà corpo e volto ad un personaggio ostico, amaro e impaurito quanto distruttivo: il lungometraggio prende con ieratica lentezza la via dell'apologo esistenziale, ed è uno di quei film che lascia di sè traccia migliore a visione conclusa, più che durante.
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