Regia di Pen-ek Ratanaruang vedi scheda film
Uno sparo alla testa, e tutto finisce sottosopra. Il prima e il dopo si confondono, così come la verità e la finzione. L’abito del monaco buddista forse è un travestimento, forse invece è il segno di un definitivo cambio di pelle. La stessa morte diviene un concetto ambiguo, che può essere frutto di una messa in scena, quella che a volte ammazza per finta, altre volte ammazza sul serio. Tul non può sottrarsi al gioco che rovescia i ruoli e li rende magari equivalenti, interscambiabili: poliziotto e criminale, assassino e giustiziere. In mezzo al grande caos di un universo impazzito, in preda ad una male dilagante ed inarrestabile, rimane un solo punto fermo, un’unica certezza: la necessità di uccidere è ineludibile, è una persecuzione contro cui la volontà non può nulla. Tul è preso per sempre nella diabolica spirale che il dottor Demon considera di origine genetica: l’uomo nasce con la cattiveria scritta nei cromosomi, il suo egoismo è un carattere ereditario dominante, che si moltiplica fino a prendere irreversibilmente il sopravvento. Tul non può fare a meno di mettersi al suo servizio: di cercare – invano - di ripulire il mondo dalla violenza con l’arma a doppio taglio della vendetta. Più Tul colpisce, più viene colpito. Il principio è circolare, vorticosamente chiuso in se stesso, in una furiosa ciclicità del tempo, che non conosce pace, che obbedisce, in maniera convulsamente spietata, alla legge dell’eterno ritorno. Eppure questo thriller thailandese è improntato alla ricerca della pace, alla riflessività delle azioni compiute a fin di bene, quelle coltivano la pazienza e tutelano l’integrità morale. L’eroe si distingue per la forza che gli permette di resistere alle tentazioni, e gli impedisce di cedere ai ricatti o di lasciarsi piegare dalla tortura. Tul supera tutte le prove, compresa quella di continuare a vivere – dopo un delicato intervento neurochirurgico - con la vista rovesciata, con le persone che gli appaiono a testa in giù, con la pioggia che cade verso il cielo. Il killer rimane invischiato, in uguale misura, nella perversione di un lotta all’ultimo sangue, e in una religiosità che impone il distacco dalla realtà: una realtà che offusca i sensi e fa sentire sbagliati, fuori posto, disallineati rispetto al naturale corso degli eventi. Tul incarna la contraddizione in cui si trasforma il dualismo cosmico quando entra in contatto con la limitatezza e l’imperfezione della umana natura: in quello spazio angusto e tormentato, gli opposti si combattono come possono, in un battaglia dal respiro corto, fra due contendenti chiusi in una prigione priva di luce. Il buio è diventato la dimensione ideale per Tul, che nell’oscurità può, se non altro, evitare di confrontarsi con l’aspetto avvilente e contorto di quella guerra tanto feroce quanto senza costrutto. Non v’è speranza alcuna di vincere, di perdere, di salvarsi: la sola via d’uscita concepibile è il definitivo annientamento, la fusione di negatività e positività in un nulla silenzioso che sospenda, una volta per tutte, ogni significato, e con esso ogni ambivalenza, ogni conflitto. Questo film affronta il suo difficile cammino con la sofferta tenacia di chi si impegna a proseguire, pur sapendo di essere condannato a rimanere fermo, con i passi trattenuti dai ceppi di un destino segnato. Il racconto va fino in fondo, pur con i freni tirati, dimostrando come la determinazione sia in grado di contrastare, almeno momentaneamente, e sia pure in via illusoria, la fatale corsa verso l’abisso.
Headshot ha concorso, come rappresentante della Thailandia, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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