Regia di Guy Maddin vedi scheda film
Un horror in bianco e nero, surreale e psicanalitico. Il protagonista dell’ultimo film di Guy Maddin si chiama Ulysses ed è un navigatore della memoria. Un memoria prigioniera di quella che, un tempo, era la sua casa: un luogo ormai disabitato, in cui l’atmosfera di intimità familiare è stata per sempre spazzata via dalla tragedia. Sono morti tutti: sua moglie, suo suocero, i suoi figli, la fidanzata del figlio maggiore, e di loro restano soltanto gli spettri, a serbare rancore e a richiamare gli eventi impossibili da dimenticare. Il nucleo del loro mondo è contenuto in una stanza chiusa a chiave, dentro la quale si può spiare solo attraverso il buco della serratura: è il cuore di una rocca inespugnabile, in cui occorre entrare con la forza, facendo un’irruzione di gruppo a mano armata, per poi continuare a mantenere lo stato d’assedio, affrontando pericoli sconosciuti, e perennemente incombenti. Vita e morte, fantasia e realtà si sovrappongono fino a diventare indistinguibili, in una storia che è un susseguirsi di rievocazioni ermetiche e frammentarie, attraverso le quali, però, il dolore riesce a farsi parola, anche solo per un istante, pronunciando i termini chiave come uccisione, annegamento, cancro. Il racconto è un confuso affanno a base di paradossi, paragonabile ad una disperata corsa all’inseguimento del senso, durante la quale il giudizio viene sottoposto a sempre nuove enigmatiche sfide. Cercare di capire, ricostruendo per filo e per segno le ragioni di un cataclisma esistenziale, equivale a spostare indietro le lancette del tempo, facendo finta che nulla sia accaduto: ma il ripristino della situazione iniziale procede necessariamente per gradi, e, mentre l’opera è in fase di realizzazione, brandelli di passato e presente convivono in un caos che sembra di carattere troppo terreno per poter essere considerato metafisico. In questo polveroso cantiere della rivelazione, il simbolismo freudiano è sostituito da un riferimento volgare ed esplicito, la sessualità perde la sua pudica veste allusiva per diventare un linguaggio diretto, scritto sulla pelle, e del tutto privo di perifrasi. Lo sguardo si fa penetrante, affondando in una trasparenza che riesce a rendere simultaneamente visibili i pensieri e le supposizioni, i desideri e le paure. In questo film il classico tema della casa infestata diviene un calderone del dubbio e del rimorso, nel quale è complicato tuffarsi, e dal quale si può riemergere solo dopo aver completato un lungo, travagliato esame di coscienza. L’operazione, in questo caso, avviene nella sinistra e popolosa penombra tipica dei bassifondi: un cupo coktail di varia umanità, proveniente dal colorito contesto della malavita, si presta a questo gioco claustrofobico con l’irreparabile, che scorrazza nei labirinti della mente con una punta di sadica irriverenza. Sull’intricatissima trama di questo film grava, a dire il vero, un sovraccarico di faticosa ambiguità, che rischia di rendere la matassa un po’ indigesta. Ma, al di là delle insidie formali di questo percorso accidentato, l’autentico prodigio è l’inesorabile onnipresenza del dramma, che vive, ammantato di fragilità e terrore, anche dentro i più fitti nodi dell’incomprensibile.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta