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A.K.

Regia di Chris Marker vedi scheda film

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La recensione su A.K.

di EightAndHalf
8 stelle

Ricreare l’aura, l’atmosfera che naturalmente si percepiva nei set dei film di Kurosawa. Chris Marker parte dai presupposti più sfacciati, espliciti ed evidenti del genere documentario (riprendiamo solo ciò che vediamo) per fare luce sulla concretezza (e non sulla presunta astrattezza) dell’attività visionaria e creativa di Akira Kurosawa, mostro irraggiungibile della Settima Arte. Mentre Marker mette in luce una serie di leitmotiv dell’intera produzione kurosawiana, esibendo a partire da un televisore, in una sala rossa, le immagini dei film precedenti Ran, insegue cautamente Kurosawa proprio nella produzione di quest’ultimo irripetibile capolavoro, così immenso e epico da far dimenticare, allo spettatore, il fatto stesso che si tratti di finzione. Cioè a dire, non viene mai in mente, nelle lunghe ma appaganti tre ore di Ran,che dietro stia un regista, con i propri drammi e le proprie particolarità. E se anche venisse in mente, non si riesce, in tale processo di mitizzazione, a capire come è possibile la convivenza fra il ruolo del pensiero generale, e della riflessione che il regista ha impresso sulla pellicola, e il ruolo dell’evidente e necessaria cura nei confronti dei dettagli e delle atmosfere. Riconfermando, in questo senso, la grandezza di questo film, ma anche dando volto, corpo ed espressione all’uomo Akira Kurosawa, Marker non si prefigge comunque di abbassare o inficiare il ruolo di questa leggenda cinematografica, diventata tale soprattutto con il passare degli anni e con il riproporsi (sempre attuale) dei suoi capolavori, ma riesce a mettere insieme vezzi particolari e umori generali, cura per i più piccoli dettagli e attenzione nei confronti dei significati più reconditi, e l’operazione di Marker è tanto più accurata quanto più se ne evince l’elaborazione creativa di un film dell’ampiezza di Ran, in cui dettagli e significato generale si incontrano con eccezionale grazia. Mettendo poi da parte, con grande astuzia, la retorica celebrativa, e quindi lasciando sbalzare in avanti il genio di Kurosawa direttamente dalla realtà e non da considerazioni a posteriori, Marker registra le cronache di un set cinematografico sano ed equilibrato, laddove (a puro titolo di esempio) molti altri registi avrebbero imposto il terrore o addirittura il geniale Herzog (o anche Kubrick) avrebbe litigato con i suoi attori. Kurosawa è un uomo mite, equilibrato, dotato di una temperanza che tiene conto di incoraggiare gli altri membri della troupe. Se talvolta appare sovrappensiero, è sempre strettamente legato alla realtà concreta che lo circonda, tanto che interviene nelle pose e nelle battute dei singoli attori, oppure nelle posizioni di singoli individui in gigantesche scene di massa, lasciando intravedere, dalle immagini di Marker, un certo perfezionismo che certo non guasta mai.

 

E inoltre, delicatamente, Marker fa luce anche su un certo passato di Kurosawa e su come un film dell’ampiezza universale di Ran riesca ad essere anche valvola di sfogo di una serie di memorie e tristezze del singolo Kurosawa, succube di un passato drammatico passato sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale e altri piccoli o grandi drammi che, forse, ne hanno comportato la grandezza. Dunque A.K. si configura come un documentario completo che mette in scena (e riconsegna al cinema)  la nobiltà del gesto filmico e l’importanza della dimensione finzionale nell’atto stesso del suo essere creata, non limitandosi a celebrare Ran e Kurosawa, ma creando a sua volta un’aura, come quella che crea Ran, per dare luce a un modo di fare cinema perfettamente coerente con i suoi contenuti, all’insegna dell’equilibrio e di una tendenza verso la Totalità (e la Perfezione) del messaggio e della messa in scena.

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