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La collina dei papaveri

Regia di Goro Miyazaki vedi scheda film

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La recensione su La collina dei papaveri

di OGM
8 stelle

Il realismo incantato di Hayao e Goro  Miyazaki è un tocco di verità delicato e profondo, che scava nel sogno per colorare il mondo. In questa trasposizione cinematografica di una storia a fumetti di Tetsuro Sayama e Chizuru Takahashi, la favola si fa strada a suon di ardite e fantasmagoriche composizioni di idee raccolte alla rinfusa, ma messe insieme in un lirico quadro dipinto dal caso. Il Quartiere Latino, l’antico palazzo che è luogo di studio e di riunione per gli allievi maschi del liceo frequentato dalla piccola Umi, è un caotico e polveroso castello delle meraviglie, dove giacciono accatastati sedimenti, ormai illeggibili, di memorie remote. Lì dentro, da un secolo nessuno fa le pulizie. E così entrare in quel luogo cupo ed affollato è come tuffarsi nella nebbia del passato. La stessa in cui sono avvolte le origini di lei, la giovane protagonista, e di Shun, il compagno di scuola che le dedica una poesia pubblicata sul giornale degli studenti. Ad accomunare i due ragazzi sono le ombre dei loro padri, svaniti nel nulla tanti anni prima, inghiottiti da una guerra infame che non ha avuto pietà per nessuno. Sono orfani in un tempo di pace, in un Paese, il Giappone della prima metà degli anni sessanta, che si affaccia alla modernità e pensa al futuro, e forse ha un’eccessiva fretta di sbarazzarsi delle tracce della propria storia recente. Quell’edificio sudicio e fatiscente è il simbolo di ciò che, agli occhi dei più, è divenuto superfluo, e deve essere distrutto per cedere il posto al nuovo. Per contro, c’è chi, come Umi e Shun, non può fare a meno di andare a ritroso nel tempo, per scavare, alla ricerca delle proprie vere radici. Entrambi hanno un motivo grave ed impellente per sapere esattamente chi sono.  Per una volta, l’energia adolescenziale di due ragazzi innamorati non è rivolta spavaldamente al futuro o, perlomeno, lo è in una maniera singolare, meno precipitosa e spensierata del solito, perché è controbilanciata da una voglia altrettanto imperiosa  di tornare indietro, per rivivere ciò che è stato perduto troppo presto,  prima che potesse essere compreso fino in fondo. C’è uno scorcio di indeterminatezza che copre la loro visuale verso l’orizzonte: Shun non sa chi sia quella ragazza che, ogni mattina, issa delle bandierine sul pennone davanti alla pensione che sorge in cima alla collina, e Umi, a sua volta, non riesce a vedere la risposta che puntualmente arriva, alla sua segnalazione, dal rimorchiatore che il padre di Shun sta manovrando nelle acque del porto. Quelle due anime ci sono, l’una per l’altra, ma non del tutto. Qualcosa le attrae e qualcos’altro le spinge ad allontanarsi. È il dilemma di un progetto di vita che urta contro la mancanza di un’identità certa, da cui prendere spunto per costruire il domani. Il punto non è dimenticare tutto  per ricominciare da zero, bensì mettere ordine in ciò che è rimasto, per fare chiarezza su ciò che è stato, ciò da cui proveniamo. Il Quartiere Latino può forse essere salvato dalla demolizione, e diventare la sede di un patrimonio culturale pubblicamente fruibile, se ci si preoccupa di ristrutturarlo, restituendogli il giusto decoro, e ridandogli un aspetto solido ed accogliente. Allo stesso modo, anche il sentimento tra Umi e Shun può decollare, se le basi da cui partire si rivelano stabili e sicure. I disegni di questo anime sono pieni di una luce che esprime la gioia di incontrarsi e il desiderio di conoscere. Una solarità divertita e intensa trasforma il paesaggio in un mosaico improvvisato, ma ricchissimo di possibilità ed occasioni. I personaggi stanno al gioco con un’energia creativa che fa di ogni istante uno scorcio variopinto sottratto alla banalità. E intanto il romanzo vive e si racconta, scantonando di fronte alle varie avversità, ma solo per inventarsi, ad ogni svolta, un originale percorso alternativo.

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