Regia di Özcan Alper vedi scheda film
Impegno civile e violenza carceraria, soppressione dei diritti civili e riduzione in schiavitù e miseria di minoranze etniche, vite individuali segnate dalle tragedie collettive, il cinema turco ha creato un linguaggio visivo di grande suggestione che scruta nella sofferenza con tocchi minimi.
“Ora che ho visto cos’è la guerra, se un giorno finisse tutti dovrebbero chiedersi: E dei caduti che facciamo, perché sono morti?”
Alper sceglie Pavese de La casa in collina per l’incipit del film, c’è qualcosa che fa somigliare Ahmet a Corrado, la solitudine contemplativa dell’intellettuale, l’irresolutezza, l’amore inespresso, il legame disarmonico con la realtà.
Corrado continua:
Io non saprei cosa rispondere. ... Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”
Accompagnato da rumori ambientali, muggiti, nitriti, abbaiare di cani e starnazzare di oche, un elicottero che passa e gente che grida in lontananza, nel buio si accende una luce violacea, un cavallo grigio corre agile nella pianura immensa verso la mdp.
Quindi sterza a sinistra, coda e criniera ondeggiano. La prima pallottola lo manca, le altre due lo buttano a terra in una caduta al ralenti, il lungo collo eretto, come stupito, si raccoglie piano su sé stesso e il corpo si raggomitola a terra, di schiena, nel pudore della morte.
Primo quadro, primo dei morti.
Djarbakir, Kurdistan, terra a maggioranza curda occupata dalla Turchia che nega la sovranità nazionale a quel popolo, lo massacra da decenni in uno stato di guerra endemico, interi villaggi bruciati, fosse comuni, racconti di madri e mogli che hanno perso ogni speranza. La ferocia della repressione turca e lo spirito rivoluzionario della resistenza giovanile entrano in scena in brevi flash, foto scattate di nascosto, riprese che sopravvivono in frammenti, racconti di donne davanti al grande pannello con centinaia di foto dei desaparecidos grandi come francobolli.
Qualcosa di simile fu fatto anche a Sarajevo per i morti di Srebrenica, quattro pareti tappezzate di foto.
Chi guarda, sfoglia, ascolta quel materiale?
E’ Sumrun (Gaye Gursel), giovane etnomusicologa partita da Istanbul alla ricerca delle voci di quel popolo massacrato in un vero e proprio genocidio.
Ne ha bisogno per la sua tesi, dice a qualcuno, vuol raccogliere le antiche nenie funebri che ancora accompagnano i morti.
Il fidanzato Harun (Osman Karakoc) l’ha lasciata da tre anni per andare a combattere, doveva farlo e da allora non l’ha più sentito.
Le ha lasciato una lettera da leggere dopo la sua partenza, è la promessa di un futuro “ … andremo verso un futuro di cui non sappiamo nulla, ma in quel futuro iniziato tanto tempo fa, un futuro che porta i nostri nomi…”
Sumrun lo troverà, nella struggente sequenza finale, il nome è inciso sul cippo di un cimitero nella neve, e il canto di un bellissimo Oratorio è la nenia funebre per quel morto.
https://www.youtube.com/watch?v=SOhDqEL4yIY
https://www.youtube.com/watch?v=CScfls2fURw
Sumrun si unisce ad Ahmet (Durukan Ordu) per questa ricerca, un giovane che cura la scalcinata mediateca della città, si occupa della biblioteca e avrebbe fatto il camionista, il mestiere del padre, racconta a Sumrun.
Lei chiede “Perché non l’hai fatto?”
“Perché è stato ucciso”.
Ci sono posti al mondo dove alle domande più semplici si rischia di avere risposte disperate, ci sono genocidi dimenticati con cui si crede sia normale convivere.
Il montaggio di Alper è fortemente ellittico, la storia va avanti con scarti analogici e compone il quadro con schizzi rapidi ancorati al paesaggio e alla trasparenza dei sentimenti nel volto dei due protagonisti.
C’è alle loro spalle la coralità di un mondo senza pace, oggetto di una violenza selvaggia che non risparmia neppure gli animali.
Il cavallo iniziale è un presagio, nel finale un vecchio racconta la mattanza nel recinto dove per tutta la notte i nitriti arrivarono al cielo.
Solo un cavallo riuscì a fuggire saltando la palizzata, “quella fuga fu come una liberazione per noi”.
Future lasts forever (2011) segue Sonbahar (2008), primo lungometraggio di Özcan Alper, valido rappresentante di quel cinema turco che si è imposto nel panorama internazionale degli ultimi decenni con opere di pregio indiscusso, e nomi come Ceylan e Erdem, Alper e Ustaoglu, Turgul e Ipekci, Kaplanoglu e Aydin, facendo capo al grande Yilmaz Guney , hanno reso gli stilemi di quel cinema inconfondibili.
Impegno civile e violenza carceraria, soppressione dei diritti civili e riduzione in schiavitù e miseria di minoranze etniche, vite individuali segnate dalle tragedie collettive, il cinema turco ha creato un linguaggio visivo di grande suggestione che scruta nella sofferenza con tocchi minimi, regno dell’antiretorica che accompagna il silenzio degli uomini e della storia con le antiche nenie che seguono i morti
Il paesaggio ha un ruolo preponderante, che siano le ampie vallate anatoliche, i laghi o le rive del Bosforo, le distese di neve dell’altopiano o le antiche città di bellezza e tristezza infinita, huzun è la parola, la tristezza che avvolge gli imperi di antico fasto, quella “… delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia…delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano…dei gabbiani immobili sotto la pioggia sulle imbarcazioni piene di cozze e alghe…” (Orhan Pamuk, Istanbul, 2006)
Sumrun e Ameth sono due sconosciuti, vivranno insieme in un lungo viaggio in luoghi impervi e di bellezza selvaggia, il loro è un dialogo muto,un'economia recitativa minimale, una musica dell’anima che non si contamina con le figure espressive.
Un uomo e una donna, il tempo perde le sue coordinate, passato presente e futuro non hanno significato e la figurina di Sumrun che ha trovato la tomba di Harun si fa sempre più piccola all’orizzonte bianco di neve.
www.paoladigiuseppe.it
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta