Regia di Victor Ginzburg vedi scheda film
P come Pepsi. O come perestrojka. Come quella fase di passaggio dall’antico al moderno, in cui si cerca la continuità con la nobile eredità passato, ma anche la rottura con tutto ciò che è vecchio ciarpame da buttare. Nella Russia di Boris Eltsin, Babylen Tatarsky si ritrova senza arte né parte, come quell’appellativo scisso tra Babilonia e Lenin, che, per maggiore confusione, richiama alla mente la torre di Babele. Agli inizi degli anni novanta, l’establishment politico ed economico dell’ex-Unione Sovietica ha appena scoperto il libero mercato, e necessita di idee pubblicitarie: di slogan che promuovano stimolanti novità innestandosi sul rassicurante territorio della tradizione. Babylen, per puro caso, si ritrova nel ruolo del creatore di campagne commerciali ed elettorali. Il mondo che gli ruota attorno è disorientato, e sembra che, per raddrizzarlo, la strada da praticare sia quella della perversione, che unisce la paura con la speranza, l’orrore con il fascino. La generale incertezza è la condizione ideale per poter sdoganare assurdità e paradossi: la fragilità rende infatti il pubblico più sensibile alle impressioni forti, che si traducono automaticamente in messaggi carichi di autorevolezza. L’unica persuasione che può funzionare è quella che agisce come una droga: d'altronde anche il principale di Babylen sniffa cocaina, e lui stesso ricorre ai funghi allucinogeni e ama rifugiarsi nei sogni visionari che, nel suo caso, si fondono con il vagheggiamento mitologico suggerito dal suo nome. Il potere è in mano a chi detiene il controllo sull’oblio e sulla falsificazione della realtà, che va dal fotomontaggio alla realizzazione di personaggi virtuali spacciati per reali. La spaccatura della storia è un incubo da cui non si sa come uscire: è un enigma basato su simboli misteriosi, come quello proposto dalla dea mesopotamica Ishtar. Le icone ideologiche e culturali hanno perso il loro significato originario, e adesso sono figure vaganti nell’immaginario collettivo, in attesa di una nuova collocazione. L’unico principio regnante, in quella massa informe di desideri indefiniti, è quello del wow wow wow!, un mantra edonistico che, funzionando in maniera opposta rispetto alle tradizionali formule della meditazione buddhista, ha il potere di accendere gli animi senza attivare le profondità del pensiero. La frammentazione della comunicazione commerciale, con i suoi accostamenti ad effetto ma senza criterio, è riprodotta nella struttura di questo film: il suo sviluppo sembrerebbe seguire il filo di una storia, però si inceppa continuamente in suggestioni istantanee, inserite come spot, accompagnate da frasi interrotte, sul più bello, dallo zapping della sceneggiatura. Riprese dal vivo ed animazioni confondono immaginazione e realtà, narrazione e descrizione metaforica; tutto sembra strappato alla vita vera, ma con le astrazioni e le iperboli tipiche della pubblicità. Nell’interregno tra socialismo reale e capitalismo occidentale, il nonsenso si affolla e crea una parvenza di evoluzione, di successione logica e temporale, che può fare da ponte tra ciò che è finito per sempre e ciò che è ancora di là da venire. Questo è il prodotto di un'industria occulta, che genera varie forme di ebbrezza collettiva, e di cui Generation P parla in chiave satirica e drammatica. A questo scopo adotta, nella rappresentazione della crisi e della corruzione, un linguaggio più fluttuante che corrosivo, ponendo l’accento sulla perdita di punti di riferimento, e sulla conseguente, ondeggiante ricerca di soluzioni posticce.
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