Regia di Stina Bergman vedi scheda film
C’è la rosseggiante inquietudine di Edvard Munch nell’immagine delle quattro ragazzine che, affacciate alla balaustra di un ponte, stanno ferme ad osservare l’acqua del fiume. Quell’atteggiamento contiene il rifiuto del mondo, a cui voltano le spalle, e l’attesa di un evento liberatorio, che infranga la ripetitività di una vita che non offre nulla, se non delusioni. In quel villaggio sperduto della Svezia, l’unica reazione al tedio è la stanchezza, e l’unico sfogo è il tradimento: mogli e mariti sono entrambi rassegnati, a loro modo, all’immutabilità di un’esistenza che perpetua una indefinibile pena. Sarà per questo che molte donne, per generare un figlio, si rivolgono al barcaiolo dai capelli rossi: si dice, infatti, che quella caratteristica fisica sia indice di una maggiore resistenza al dolore. Tutti, comunque, si devono accontentare, prima fra tutti la piccola protagonista di questa storia, una ragazzina bionda il cui padre è quasi sempre assente per lavoro, e, quando ritorna dai suoi viaggi, non le porta il regalo che le aveva promesso. Gli uomini, invece, si consolano con l’unica prostituta del posto, mentre le donne, chiuse in casa, tacciono e forse tramano in segreto. La quotidianità ha la cadenza del ritmico sospiro della noia, sottolineato dalla melodia che, in sottofondo, interpreta l’immobilità con un pomposo refrain da ballata. Eppure c’è chi vive la normalità da diverso, perché qualcosa, nella sua persona, è fuori dalla norma: il colore dei capelli, la costituzione fisica, la condizione familiare, la nazionalità. L’esclusione diventa allora una sorta di gioco di società, praticato per spezzare la monotonia e vivacizzare la scena. Comune a tutti è la voglia di cancellare ciò che, per qualsiasi motivo, non va bene: dagli oggetti che testimoniano anni di infelicità coniugale, al colore dei capelli che suggerisce un’estraneità genetica, ad una foto che ricorda una promessa non mantenuta. L’idea di fondo è quella della morte, invocata come elemento di novità e di liberazione, che interrompa l’inutile affanno di portare avanti un’esistenza priva di senso. Tutto ciò che è indesiderato sparisce nel fiume, quasi si trattasse di un sacrificio offerto all’antico simbolo del divenire. Il dramma di non sopportarsi e di farsi del male finisce nella fredda pace di uno specchio d’acqua, che lava via le incongruenze, le disarmonie, le incomprensioni. La vendetta è una faccenda triste e dolce, leggera e silenziosa come un piccolo tuffo dalla riva: un evento sommesso, misterioso e quasi magico, che si manifesta come il fiabesco avverarsi di un desiderio del cuore. Volere intensamente è ciò che rimane quando tutto il resto è vano: è la salvezza di chi non rinuncia a sognare, e sa di farlo a proprio rischio e pericolo, senza poterlo dichiarare apertamente. La reticenza è il punto forte di questo film, perché, in un contesto in cui niente è come dovrebbe essere, il non detto è la nicchia profonda in cui si cela la verità; nel contempo, però, ne è anche il punto debole, perché inserisce lamentevoli discontinuità nella narrazione, che così diventa faticosa e non sempre del tutto comprensibile. L’ambiguità risulta imbrigliata in’espressività ricercata, eppure acerba, naturalmente predisposta alla rarefazione e alla poesia, ma dal carattere non ancora completamente formato. La miscela di simbolismo grottesco e di lirismo bucolico e un po’ naïf (che si direbbe ispirato al moderno goticismo della pittura di Grant Wood) è il frutto di un originale esperimento stilistico, in cui però, purtroppo, l’attenzione per la coloritura dell’atmosfera finisce per prevalere sulla cura del contenuto. Die Beauty è comunque un apprezzabile inizio, un esercizio di letteratura visiva che riesce a portare, sullo schermo, un’amarezza dal sapore nuovo, lievemente salmastro e speziato, come quello di un paesaggio rurale sferzato dal vento di sentimenti ruvidi e cupi.
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