Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
Il confronto con l’opera di Sir. Alfred lascia sempre basiti ad ogni visione; tale è infatti la modernità delle argomentazioni e della fluidità registica che non si avvertono gli oltre 60 anni che ci separano dalla sua uscita. Profondamente immerso nella pragmatica atmosfera fine 40/inizio anni 50, il dramma da camera si sviluppa da subito sulle ampie coordinate stilistiche di una sontuosa inquadratura generale su una strada cittadina percorsa da figurine/pedine intente nelle loro normali occupazioni, silenziose e senza che nulla di eccezionale traspaia dai loro comportamenti. Poi, di colpo, l’azione si sposta oltre una tenda di un arioso loft newyorkese con lo sfondo di un’avvolgente vetrata con vista sulla città. L’ambiente chiuso fa da circoscritta provetta alle scriteriate teorie superomistiche del duo di personaggi (il sicuro Brandon Shaw e il titubante Philip Morgan, quest’ultimo “allievo” succube del primo) che terranno la scena per una lunga sequenza preparatoria di tutti i coprotagonisti (e dei loro rapporti interpersonali), i quali verranno man mano introdotti nel loro appartamento. I rapporti di forza, di subalternità e di rivalsa seguono l’ancestrale dualità padre/figlio: Brandon che cerca la lode del “padre” putativo (il professore Rupert Cadell) per poi dimostrargli la propria superiorità, Philip che segue il suo compagno (amante ?) nelle sue scellerate azioni cercando (inutilmente) di non deluderlo e il solido signor Henry Cantley che, più prosaicamente, teme per la sorte del proprio figlio David. Quest’ultimo funge da elemento scatenante della storia, pur restando sempre invisibile allo spettatore: un Godot giunto in anticipo e continuamente citato che (ovviamente) non si presenterà mai. Le figure e le tematiche di contorno, tanto care al regista nella sua ricerca puntigliosa del particolare, servono ad ammorbidire le tensioni generate dal tema principale (il delitto e l’assassino “perfetto”), fornendo allo spettatore un necessario “stacco” per nutrirne la voglia di suspense. I dialoghi e la sceneggiatura, di Arthur Laurents e Hume Cronyn, su un opera preesistente (“Rope” di Patrick Hamilton), sono straordinarie per arguzia ed efficacia (i primi) e per precisione e raffinatezza (la seconda). Dal punto di vista tecnico si sfiora, a mio avviso, la perfezione stilistica: i piani sequenza conclusi sempre da un elemento fisico (le spalle di un personaggio o l’anta di un sarcofago), la lunga sequenza dei movimenti “virtuali” di David nella stanza, con la mdp che ondeggia a ricostruirne le ultime azioni terrene, la sublime inquadratura fissa sulla governante, con i suoi atti apparentemente ordinari ma “pericolosi” per il disvelamento sulla sorte di David, a margine dei dialoghi/disfida tra il terzetto di contendenti (Stewart/Dall/Granger). Per poi concludere il tutto come era iniziato: un’inquadratura totalizzante su un deserto emozionale (i tre protagonisti nella stanza persi nei loro sensi di colpa o in azioni “rifugio” quali suonare il piano o bere un drink) mentre la vita, rumorosa, invade la stanza spazzando via i castelli di carta delle speculazioni individuali.
Ad orologeria.
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