Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
Due giovani sempre più nervosi, una bella ragazza, il suo ex fidanzato, il padre e la zia del suo nuovo fidanzato, un professore universitario, una donna di servizio e un cadavere chiuso in una cassapanca. Il film viene ricordato soprattutto perché costruito in modo da simulare un unico piano sequenza (in realtà i tagli di montaggio sono mascherati da inquadrature in nero: oggi si saprebbe fare di meglio, ma all’epoca i mezzi erano quel che erano). Tuttavia possiamo tralasciare i virtuosismi tecnici e anche il sottofondo filosofico (lo smascheramento delle tesi superomistiche), che mi sembrano tutto sommato secondari: qui Hitchcock fa una delle cose che gli riescono meglio, ossia raccontare un presunto delitto perfetto (perché privo di movente) che poi si dimostra non così perfetto. Il risultato è un avvincente thriller da camera che quasi prescinde dal delitto (relegato fuori campo prima della scena di apertura) e bada al sodo, ossia a far crescere la suspense. Fra l’umorismo macabro sempre più esplicito di uno dei giovani e la pericolosa solerzia dell’inconsapevole donna di servizio, il personaggio chiave diventa quello del professore: deus ex machina che si materializza all’improvviso, quasi evocato dai discorsi degli altri, e assiste sornione e apparentemente svagato allo strano cocktail party, pronto a cogliere i meccanismi freudianamente rivelatori di certe frasi (“Non ho mai ucciso un pollo in vita mia!”) prima ancora di capire che in quella stanza è stato appena commesso un omicidio. E la macchina da presa sembra dotata di vita propria: non solo si disinteressa spesso e volentieri di chi sta parlando per soffermarsi sui particolari che davvero contano, ma alla fine arriva a ricostruire virtualmente con i suoi movimenti lo svolgersi del delitto, assecondando il racconto del professore.
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