Regia di Cai Shangjun vedi scheda film
Il titolo che letteralmente potrebbe intendersi come “gente di montagna, gente di mare” in realtà potrebbe far riferimento alle differenti realtà che ci si trova davanti passando dalla sterminata campagna cinese ai quartieri popolari di una metropoli qualsiasi. Che poi la differenza vera è limitata ad un aspetto esteriore del paesaggio circostante perché l’umanità muta e rassegnata che vediamo rappresentata nel severo, duro e spettrale film di Cai Shangjun è caratterizzata da una spersonalizzazione totale che mai come in questo ottimo film si percepisce e rende si palpabile allo spettatore (occidentale) come un’angoscia attanagliante, dove l’individualismo si annienta nel formicaio senza forma che ti rende una frazione infinitesimale e dunque trascurabile di un sistema che va avanti e procede il suo corso dopo averti spremuto con fatiche e sforzi e poi gettato via come un rifiuto. Il film cinese è formalmente un thriller, una caccia ossessiva all’uomo, assassino brutale e violento di un ragazzo a cui sottrae la moto nell’incipit inizialmente lento e poi improvvisamente concitato e furente nell’uccisione a sangue freddo con un coltello nella schiena del povero inconsapevole giovane che gli dà un passaggio. La notizia scuote a tal punto il fratello maggiore della vittima da indurlo a partire alla ricerca del fuggiasco, subito individuato dalle autorità di polizia ma resosi irreperibile. Ecco che l’uomo, operaio in una cava, lascia tutto per dirigersi in città sulle tracce dell’assassino per placare un istinto di giustizia che assume la forma di una vera e propria vendetta. Il viaggio errabondo dell’uomo, silenzioso e senza parvenza di emozioni, è anche l’occasione per ritrovare la donna che gli ha dato un figlio. Ma ogni incontro, ogni nuovo indizio, sono raccontati con la freddezza della rassegnazione e seguiti da una regia potente che segue da distante il protagonista silente e spietato con riprese quasi immobili dalle quali trapelano singoli meravigliosi scorci di uno squallore umano che non lascia speranza di riscatto né alcuna possibilità di riscatto. La parte finale ambientata in una miniera in cui l’assassino si è rifugiato e in cui lavora come uno fra i tanti uomini di fatica sfruttati, controllati e “imprigionati” come galeotti fino a condurli all’esaurimento, oltre a permettere al nostro protagonista di organizzare una sua esplosiva vendetta, consente ancor più al regista di far luce su una situazione di vita e di sfruttamento pressoché medioevale dove l’individualismo e i diritti civili più elementari si perdono nei meandri oscuri di un tunnel minerario senza uscita e dalle atmosfere biecamente infernali.
Un film spigoloso che non racconta ma rappresenta, fotografa asetticamente e si sviluppa con una narrazione che non spiega ma lascia spazio ad interpretazioni ma anche ad incognite, soprattutto da parte di chi come noi europei o gente occidentale ci troviamo davanti ad una realtà brutale che non lascia più spazio a sentimentalismi o comprensioni, ed in cui il cuore delle persone appare come pietrificato dalle estreme asperità della vita e del far parte di un sistema immenso che ti fagocita e ti annienta di ogni individualismo e peculiarità. Dunque un’opera eccezionale giustamente premiata per la regia al Concorso veneziano dell’edizione 2011.
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