Regia di Pierre Salvadori vedi scheda film
Di Pierre Salvadori, regista francese di origini tunisine, ci è arrivato abbastanza poco qui in Italia, e non sempre il meglio, visto che manca all’appello proprio questo “Les Marchands de sable” che ha ormai più di dieci anni sulle spalle, poiché si tratta di una pellicola che è uscita in Francia nell’ormai lontano 2000, ma che a quanto mi risulta, è ancora “latitante” dalle nostre parti.
Secondo le indicazioni produttive della committenza di quest’opera realizzata prioritariamente per la serie televisiva “Gauche/Droite” (e dalla quale è stata ricavata appunto una versione più breve – e come tale molto meno incisiva - che ne riduce la durata a sessanta minuti dal titolo Le Detour che è poi proprio la riduzione più addomesticata passata in televisione), Les marchands de sable avrebbe dovuto essere semplicemente un film che si concentrava e aiutava a riflettere sull’incidenza anche politica dell’economia nella vita quotidiana di oggi, utilizzando come veicolo trainate di comunicazione, la costruzione formale e di contenuti di un cinema noir con le radici ben piantate nella classicità del genere.
Ne è venuto fuori invece (parlo ovviamente della versione “lunga”) un manufatto per più di un verso sorprendente ed ammirevole (per Cineforum uno dei titoli più significativi del cinema criminale francese contemporaneo, da accostare per potenza di invenzioni e densità di scrittura, a “13 Tzameti” di Géla Babluani, due opere importanti della giovane cinematografia d’oltralpe che restano però e in ogni caso - credo che sia opportuno sottolinearlo - complessivamente molto divergenti, non solo per il contenuto, ma anche per la struttura narrativa e per lo stile della messa in scena.
Pur non trovandomi sulla stessa lunghezza d’onda d’entusiasmo della rivista (nel senso che personalmente trovo il film di Babluani di alcune spanne superiore – anche per innovazione formale - al pur pregevole risultato raggiunto da Salvadori) sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che si tratta davvero di un titolo meritevole di menzione e soprattutto d’attenzione, proprio perché il regista, una volta tanto lontanissimo dal suo più consueto mondo legato alla commedia, pur rispettando integralmente il “dettato” della committenza, ha fatto poi molte divagazioni in altre direzioni, con piccole annotazioni in apparenza marginali, e che si potrebbero definire persino di scarsa consistenza nell’economia finale del racconto, sufficientemente incisive comunque per costringerci ad immergerci nei meccanismi perversi del mercato della droga, equiparato però (anche se in via indiretta e quindi con modalità abbastanza allusive, e da cogliere di conseguenza “al volo”), al “mercato” tout court che regola ogni tipo di commercio, argomento questo di grandissima attualità che “avvolge” di bagliori inquietanti il nostro presente anche “economico” in profonda crisi strutturale, sul quale potrebbe essere importate fare più di una riflessione.
Al di là di queste considerazioni che riguardano il senso davvero profondo di quest’opera, è importante in ogni caso evidenziare che il lavoro realizzato da Salvadori tiene soprattutto ben presente e in primo piano, proprio la straordinaria “lezione” del cinema di genere di un tempo ormai lontano verso il quale resta debitore persino come ispirazione generale, vedi il nome Detour “imposto” a uno dei due caffè della storia, privilegiato anche come titolazione della versione più corta, probabilmente “ridimensionata” nella durata alla ricerca di maggiori consensi, considerato che anche in Francia il film ha goduto di un favore molto limitato da parte del pubblico, e non è purtroppo nemmeno riuscito a suscitare nella critica specializzata - fatte salve alcune lodevoli eccezioni, naturalmente - adeguati entusiasmi e sufficienti simpatie (forse in buona parte spiazzata proprio da questo inaspettato slittamento in zone “aliene” rispetto ai precedenti lavori del regista – qui al suo quarto lungometraggio - che rappresenta davvero una repentina sterzata nel suo percorso di autore di commedie magari anche argute, ma spesso solo piacevolmente accattivanti con cui si era cimentato a quel momento).
A scanso di equivoci comunque, è bene precisare subito che in ogni caso Salvadori con molto granum salis, si è tenuto di proposito ben lontano da ogni forma condizionante strettamente connessa a considerazioni programmatiche di comodo legate a perbenismi sociologici o addirittura a conformismi ideologici di natura etica, che in questo contesto sarebbero risultati assolutamente fuori luogo, e ha realizzato invece con il suo interessante esercizio un tantino “manierista”, una pellicola nella quale si procede più per “suggestioni” che per scoperti e certi elementi riconoscitivi che avrebbero finito per certificare invece una “tranquilla” ma impropria appartenenza del progetto a una rassicurante corrente che potrei definire didatticamente moralisticheggiante.
Ma andiamo per gradi e partiamo dalla storia: il “Detour” è uno dei due caffè che si affacciano su una piazzetta parigina, e più esattamente quello dal quale, quasi soffocato dalla densa coltre di fumo causata dall’incendio che sta devastando il locale, proprio nelle scene iniziali della rappresentazione, esce un uomo stravolto ed ustionato che si trascina fino al commissariato sotto lo sguardo allibito dei presenti, e che ai poliziotti di turno, quasi a volersi salvare da una “dannazione”, dichiara di chiamarsi Alain e di aver ucciso un uomo dentro al bar nel quale lavorava.
Questo però è solo il prologo che serve da introduzione ai fatti, che in effetti hanno avuto origine proprio l’anno prima. Ed da questi che poi riprende a dipanarsi la vicenda, portando in primo piano come fulcro centrale del racconto, il fondamentale personaggio di una ragazza ventenne di nome Marie di fresca dismissione da una prigione, che una volta libera, decide di tornare a vivere a casa di suo fratello Antoine (col quale ha un rapporto particolarissimo e profondo), piccolo delinquente di quartiere, implicato in qualche marginale traffico di droga con la gente della zona, un traffico strano e molto particolare che coinvolge un composito universo di persone assillate dai debiti (Stéphane, Alain il cameriere del “Detour”, appunto, Xavier e suo zio Damien fra i tanti). Semplici episodi di malavita provinciale insomma dove – almeno all’inizio e in apparenza - tutto sembra filare liscio senza troppi intoppi. Una sera però, dopo aver recuperato per conti di Xavier dei soldi di un affare legato alla droga, Antoine decide di tenersi per sé il malloppo e offrire con questo una vacanza alla sorella, un progetto che non riuscirà comunque a concretizzarsi perché l’uomo verrà invece ucciso brutalmente a seguito dello sgarro commesso, e tutto il peso delle conseguenze ricadrà di conseguenza e inevitabilmente proprio sulle tutt’altro che fragili, volitivissime spalle di Marie che Alain cercherà invano di aiutare, anche se è già troppo tardi per tornare indietro o rimediare e si può fare davvero poco, poiché l’implacabile ingranaggio della vendetta si è ormai messo inesorabilmente in movimento, e coinvolgerà alla fine anche l’uomo proprio per quel sue essersi messo di traverso, che finirà per pagare a caro prezzo le conseguenze del suo gesto.
Les marchands de sable, costruito a partire da una solida, studiatissima sceneggiatura totalmente priva di sbavature ed esente da qualsiasi seduzione letteraria che poteva essere suggerita dalla svolta romantica che a un certo punto sembra voler prendere la vicenda, ha un solido impianto narrativo (si avverte chiaramente che Salvadori e il suo co-sceneggiatore Nicolas Saada hanno saldamente in mano il senso del racconto, oltre che la “capacità” tutta speciale di riuscire a tratteggiare con adeguata forza e singolare inventiva innovativa, situazioni e caratteri), che si definisce in un congegno davvero implacabile – quasi a orologeria, si potrebbe dire – nel quale, come succede appunto nella migliore tradizione del noir, il tragico gioco del destino finisce per imporsi ed avere il sopravvento sulla logica dei fatti e soprattutto sui personaggi, che trascina inesorabilmente dentro una spirale di eventi incontrollabili di efferata violenza, che li trasforma in friabili pedine di un meccanismo inarrestabile molto più grande di loro che non può che travolgere ogni cosa. I protagonisti del film si muovono infatti in un universo ambiguo e disturbante dominato dalla simulazione e dall’inganno e dove l’innocenza e la colpa, la verità e la menzogna, restano indefiniti inesplicabilmente incerti, confusi e ambigui, quasi inscindibili come risultano nei fatti.
Persino i luoghi del racconto diventano sfuggenti (e questo forse è il merito maggiore dell’opera), anche se le vicende sono geograficamente collocate in un ambiente raffigurato con una meticolosa precisione topografica quasi maniacale (un quartiere del XVIII arrondissement di Parigi, una piccola piazza di forma circolare, due caffè posizionati uno di fronte all’altro, un albergo di infimo ordine dove si svolge il traffico della droga…) e quindi riguardano un territorio perfettamente definito con i suoi contorni netti quasi rassicuranti almeno alla luce diurna del sole, ma capace però di trasformarsi nelle ovattate, ombrose sequenze notturne, in un paesaggio decisivamente molto più inquietante e onirico, assolutamente antinaturalistico che assume i tratti di un luogo più astratto, esattamente come può essere quello evocato da un incubo interiore della coscienza e dove si collocano con prepotenza le strade spettralmente deserte, vuote e silenziose, che vedono consumarsi l’inseguimento e l’agonia di Antoine in una delle sequenze più straordinarie dell’opera, suggestiva, magnifica e terribile, che rimane fortemente e indelebilmente impressa nella memoria) che, diventano così i sentieri di un labirinto inestricabile da cui sembra smarrita ogni via di fuga (ancora Cineforum) che circoscrivono ed esaltano proprio quello scenario lugubremente funereo che fa da cornice alla vicenda su cui sembra pesare un’opprimente atmosfera di cupa e ineluttabile fatalità.
È proprio all’interno di questo spazio scosso da un male che si potrebbe definire “sotterraneo e impalpabile” e a suo modo desolatamente allucinato, dal quale sembra impossibile rimanere indenni, che si aggirano i protagonisti maschili del racconto, esseri vulnerabili, sgomenti e fragilissimi, tutti pavidamente spaventati, “smarriti” e incerti, divorati come sono da una debolezza quasi strutturale che li rende incapaci di fronteggiare e sostenere il confronto anche dialettico con un femminile molto più distruttivo e minaccioso che li fa essere perdenti già in partenza e confinati e costretti di conseguenza a muoversi in un limbo inospitale impervio e inesplorato come è diventato per loro un quartiere che dovrebbero invece conoscere molto bene, perché è il territorio dove si muovono da sempre, una posizione dello sguardo che fa avvicinare Les marchands de sable alla misoginia di molti noir della fervida stagione degli anni d’oro del cinema americano del secolo scorso. Come in quelle opere infatti, anche in questo film giganteggia e primeggia un’inquietante figura femminile, quella di Marie resa magnificamente da un’intensa Marina Golovine, un personaggio a suo modo quasi terrorifico che con l’apparente fragilità di facciata che sembra ostentare, ha la capacità funesta di portare allo scoperto le paure segrete degli uomini che attraversano la sua strada. La sua è una presenza carismatica e centrale nella storia, quella di una creatura a suo modo lacerata che sembra portare su di sé la maledizione di una nemesi degna di tragedia greca. La determinazione davvero “implacabile” con cui decide di farsi strumento di vendetta ha in sé qualcosa di ancestralmente arcaico: il suo dolore per la morte del fratello, non è infatti capace trovare consolazione o pace, se non si sublima o si sfoga in un atto di furiosa violenza che prelude la morte, forse perché il rapporto che la legava ad Antoine, appare fortemente connotato da inquietanti risvolti incestuosi, anche se poi alla fine nel film persino tutto questo è affidato alla pura suggestione delle allusioni, perché nulla di torbido, e tantomeno di perverso viene illustrato o messo in scena (solo sussurri e poche grida insomma). È significativo in ogni caso come tutti i personaggi maschili del film, spacciatori compresi, si mostrino soggiogati, quasi atterriti dall’energia devastatrice e quasi ammaliante della donna, poiché anche lo stesso Alain, l’unico personaggio davvero “innocente” della storia, dopo aver tentato invano di scongiurare il peggio, nel prodigarsi ad evitare che l’inevitabile si compia, si lascerà purtroppo risucchiare dalla maligna vertigine del sangue, e finirà a sua volta per assumere le dimensioni dell’eroe tragico costretto suo malgrado a sperimentare la propria incapacità a misurarsi con le scadenze implacabili del destino e a fronteggiarle, proprio perché costretto ad agire in un mondo come quello qui descritto, davvero privo di ogni possibile speranza di redenzione.
Un’opera dunque che attinge ai modelli non solo iconografici, ma anche narrativi di una tradizione più che gloriosa che ha fatto storia, piena di “impronte” che vanno dai classici della letteratura hard-boiled (dei quali ricorda in particolare il clima febbrile e suadentemente snervante quasi ipnotico di certi capolavori noir nati dalla stralunata misoginia di Cornell Woolrich) allo straordinario cinema criminale americano in auge nel decennio dei Quaranta del secolo scorso, ma senza dimenticare però anche tutto ciò che di memorabile si è prodotto su questo versante nella cinematografia francese del novecento ed oltre, fino ad approdare al neo-polar dei tempi più recenti. Sono infatti davvero tante le influenze presenti riscontrabili nel film mutuate però in modo assolutamente personale, un elemento questo che ci consente di poter sottolineare e mettere in evidenza soprattutto la prepotente carica innovativa, quasi eversiva dell’opera, e di apprezzare nel contempo la speciale sensibilità di un autore che ha saputo animare una visione tragicamente cupa e desolata delle cose attraverso una galleria di personaggi “classicamente” ancorati nel presente, che non disdegna però di utilizzare stilemi narrativi certamente aggiornati ai tempi, ma costruiti per buona parte su tutti i canonici “passaggi” obbligati del genere noir, compreso quelli più abusati e consunti, rivificati però con l’innesto di un buona dose di nuova linfa “emozionale”.
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