Regia di Faouzi Bensaïdi vedi scheda film
Un’amicizia maledetta. Una di quelle che segnano per sempre, e di cui non ci si sbarazza tanto facilmente. A volte l’unica via d’uscita è la morte: fisica, affettiva, morale. Alla, Malik e Soufiane sono tre ragazzi normali, ossia sbandati, come si addice alle società che, nel generale rimescolamento dei pensieri, non hanno ancora trovato un’identità certa. O forse non la stanno nemmeno cercando. Il Marocco dei giorni nostri resiste alla modernizzazione, pur nella scontentezza di non poter essere al passo con i tempi, di non aver superato le ingiustizie e risolto le tensioni interne. Ci sono ancora i padri padroni, a vegliare su figlie che hanno relazioni con uomini sposati. E intanto le tentazioni del benessere si sposano col degrado, col crimine, con la rabbia che risveglia antiche ossessioni, a cominciare dall’integralismo religioso. La battaglia coinvolge tutti: su entrambi i fronti combattono scelte sbagliate, giovani sfaccendati e cinici o pericolosi fanatici, poliziotti corrotti e delinquenti da strapazzo, uomini autoritari e donne subdole. Il quadro sarebbe il solito desolante ritratto della decadenza se non fosse per quella speranza indefinita di cui, sottotraccia, si avverte il palpito sommesso e nervoso: una vibrazione che trasmette l’inquietudine di chi sta male, ma non sa cosa sia possibile avere, né cosa sia giusto amare. La libertà, forse, qualunque sia il significato del termine, che nessuno osa pronunciare. Un’idea dal contorno evanescente, che pure è presente, con la sua carica di ambigua seduttrice, che tanto promette e sembra così semplice da ottenere. All’inizio della storia, le porte del carcere si aprono. Le strade si riempiono nuovamente delle scorribande notturne di chi è ritornato alla vita. Anche i sogni ripartono, insieme agli errori dai quali non si è imparato nulla. I desideri non sono cambiati, i soldi sono sempre desiderabili e sporchi, solo la violenza, apparentemente, è cresciuta, si è fatta più complessa, insinuandosi negli angoli bui delle case private, dilagando nelle piazze, diventando la protagonista di storie tragicamente romantiche e di giochi da ragazzacci. Ci si impicca in solitudine, per un segreto eccesso di infelicità. Oppure si viene pubblicamente appesi a un albero, un po’ per vendetta, un po’ per divertimento. Si finisce comunque condannati dalle proprie voglie proibite, dalla trasgressione, da quell’andare contro che, anziché innescare le necessarie rivoluzioni, non fa che spianare la strada al tradimento. È un’energia disgraziatamente sprecata, che si butta via in un attimo, dopodiché ci si ritrova stanchi e deboli, in balia di un mondo che ci si illudeva di poter salvare. Non è vero che l’amore vince. Non è vero che il futuro è a portata di mano. Non è vero che Dio vede e provvede. Si pensava di poter evadere, e ci si scopre schiavi, incatenati ad un destino infernale. Tutto ciò per cui si è lottato è lì, racchiuso in un pugno di squallido dolore, in mezzo all’infinita povertà di chi ha perso anche se stesso.
Deatch for Sale ha concorso, come rappresentante del Marocco, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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