Regia di João Canijo vedi scheda film
La famiglia non è “allargata”. Anzi, è stretta stretta, compressa dentro gli spazi angusti della sua abitazione, nella quale le stanze sembrano quadri schiacciati, del tutto privi di profondità. L’aria è soffocante, a causa del sovraffollamento di persone, di problemi, di contrasti. I dialoghi si incrociano, spesso non è chiaro chi parli e chi ascolti, e forse ogni discorso è comunque destinato a cadere nel vuoto. Ciò che veramente accade è ciò che non si dice. Un rapporto incestuoso, un crimine, strani accertamenti medici. A casa di Marcia, la cuoca che ha allevato da sola tre figli, le storie si accavallano in un tumulto di parole astiose, che inducono a chiudere la comunicazione subito dopo averla aperta. Non c’è continuità nell’espressione, e una parte rimane sempre esclusa dal gioco. Le immagini si succedono come frammenti difficili da far combaciare: le inquadrature sono quasi sempre tagliate, mal centrate, sfocate, confuse dalla sovrapposizione di più piani, come le varie esistenze che vorticano intorno ad un comune dolore, senza mai riuscire ad arrivare al punto. Ivete cerca se stessa e non si trova: si sforza invano di specchiarsi in una femminilità che nessuno, nel suo corpo, sembra notare. Claudia si perde per amore, dividendosi tra un uomo imbelle, che non riesce a tenerla per sé, ed uno arrogante, che vuole solo sfruttarla. Joao Cesar è stato in riformatorio, ma si è poi subito rimesso al servizio della malavita. Gli errori si ripetono, e stanno uno addosso all’altro, avvinghiati come bestie ferite, che, in preda all’agonia, si mordono a vicenda. In questo film del portoghese Joao Canijo si scorge un’insistenza nel girare intorno alle questioni, nel buttare al vento frasi condannate a restare incomprese, che ricorda da vicino la prolissità monologica di Manoel De Oliveira: quel gusto teatrale di declinare in una solitaria prosa la propria impossibilità di essere capito. Il registro linguistico è adattato all’ambiente casalingo di un quartiere popolare, i cui personaggi dispongono di fantasie abituate a volare basso, pescando le proprie suggestioni direttamente dal campo delle sensazioni tattili, uditive, olfattive. Il loro mondo è sporco di fracasso e di odori pesanti, al di sopra dei quali si ergono i loro modesti sogni di periferia (un diploma da infermiera, una protesi al seno, magari un appartamento nuovo). Le loro aspirazioni fanno fatica a emergere, perché in quel bugigattolo domestico non c’è posto per tutti. Ognuno è costretto a svolgere troppi ruoli insieme, ad essere qualcosa di diverso per ognuno di coloro che incontra, e la pressione diventa insostenibile. Fidanzata, amante, figlia, allieva. Madre, donna, lavoratrice, protettrice dell’onore di famiglia. Figlio, fratello, fidanzato, delinquente. È un’impresa far tornare i conti, dovendosi attivare, contemporaneamente, in tante direzioni. Ed intanto ci si spezzetta, per partecipare un po’ alla sofferenza di tutti. Con Sangue do meu sangue il cinema del barrio diventa un dramma convulso e sovraesposto, ripreso troppo da vicino, dove la visione d’insieme sfugge, mentre i dettagli urlano la propria disperata irrilevanza. Lo scalpiccio di un paio di sandali che si trascinano sull’asfalto contiene tutto lo sgomento che dalla testa si trasferisce ai piedi: solo che, in condizioni normali, nessuno lo ode.
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