Regia di Stuart Hazeldine vedi scheda film
Il problema non è la risposta. Il problema è la domanda. Questa è la prova che sono chiamati ad affrontare otto candidati, chiusi per ottanta minuti dentro una stanza, davanti ad un foglio bianco. Sul quale il quesito non è riportato. Sono quattro donne e quattro uomini, rappresentanti di tutte le principali etnie del pianeta, che sono usciti da una durissima selezione. Solo il migliore di loro otterrà un prestigiosissimo posto presso una grande industria, leader mondiale nel campo della ricerca farmaceutica. Le regole del gioco sono poche e chiare: chiunque le violerà verrà immediatamente eliminato. Tutto ciò che non è espressamente vietato è lecito: e questo dà, ai concorrenti, una libertà d’azione pressoché infinita. Possono dialogare e toccarsi; possono collaborare o combattersi, ferirsi ed anche uccidersi: e a tutto ciò si dimostrano effettivamente disposti, pur di trovare, all’interno del luogo angusto, spoglio ed asettico nel quale sono segregati, una traccia del misterioso enigma da risolvere. Il film di Stuart Hazeldine è un crescendo magistralmente architettato, in cui la degenerazione del comportamento sociale segue uno schema lucidissimo e rigoroso, che, anche nelle sue manifestazioni più crudeli, si esplica essenzialmente sul piano della sofisticata sfida tra intelligenze. La dialettica segue, in maniera quanto mai movimentata e complessa, le strade della persuasione e dell’ingegno, alternando eloquenza e sotterfugio, astrazione teorica e concretezza operativa. Pensiero, parole ed azione sono le tre voci di una composizione corale che percorre le vertiginose dinamiche della creatività tecnica, dell’arguzia strategica e dell’intuizione psicologica, preferendo di gran lunga il rischio all’indugio: la ristrettezza dei tempi ed il valore del premio in palio impongono di non lasciar nulla di intentato. Ciò dà origine ad una sperimentazione frenetica ed allucinata, che sfiora la follia e il masochismo, e non recede né di fronte al ridicolo, né di fronte alla distruzione delle cose e delle persone. A dare spettacolo è, in questo caso, una dissennatezza mirata che è il frutto di un’ambizione fuori misura, e che vede nell’assurdo una dimensione eccentrica e privilegiata da cui poter acquisire una più penetrante visione della vita, dell’umanità, dell’universo in generale. L’obiettivo invisibile non può essere raggiunto con i normali strumenti della conoscenza, e questa consapevolezza spinge a muoversi alla cieca, abbracciando ogni possibilità, anche le più surreali, come un’ipotesi che forse può condurre alla verità. Così opera, del resto, anche la ricerca scientifica quando si spinge oltre i limiti del sapere, verso territori sconosciuti in cui tutto può accadere: una giungla che può riservare scoperte casuali e miracolose, ma anche sgradite sorprese, insidie inaspettate, apparenze che ingannano, e nella quale occorre dunque avanzare a tastoni, con un atteggiamento costantemente vigile e potenzialmente aggressivo. Questo è il naturale ed atavico spirito del conquistatore, che è l’anima del progresso, fintanto che non viene contaminato dalla rivalità. La necessità di arrivare primi al traguardo suggerisce infatti di alleggerirsi di tutto ciò che possa rallentare la corsa, a cominciare dai vincoli della coscienza; ed è questo a rendere la competizione disumana, trasformando la gara in una vera e propria guerra. Il confronto, in questo film, è ad armi pari, ma le armi, su tutti i fronti, sono illegittime: ovunque si ricorre alla frode, alla meschinità, alla menzogna. La lotta è cruenta ed iniqua non solo quando il forte schiaccia il debole, ma anche e soprattutto quando i contendenti sono tutti forti. È questo ad elevare al massimo il livello dello scontro, facendogli raggiungere picchi di inimmaginabile perfidia. Non sarebbe male se la storia di Exam si chiudesse su questa illuminante rivelazione, mordendoci, nell’ultima scena, con una folgorante climax di cinismo. Sarebbe più eccitante, e senza dubbio anche più istruttivo, rispetto al finale moralistico e consolatorio che ci viene inopinatamente propinato, nel preciso istante in cui avevamo eroicamente acconsentito a dire addio a ogni speranza. Paradossalmente, sono proprio i racconti tronchi ed inconclusi quelli che davvero vanno fino in fondo, perché si schiantano contro la dura, indomabile sostanza della realtà, senza deviare all’ultimo momento verso posticce chiarificazioni di comodo. Stuart Hazeldine vuole invece, purtroppo, che la soluzione venga trovata, e che il dramma si dissolva con magica semplicità. Un peccato di buonismo che ci dispiace, ma che, a fronte della qualità del discorso principale, gli possiamo certamente perdonare.
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