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Regia di Murali K. Thalluri vedi scheda film

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La recensione su 2:37

di OGM
8 stelle

Guardare questo film è come rivedere Elephant, benché la tragedia narrata sia di ben altra specie: non c’è un gruppo di studenti armati di mitra che compiono un massacro, ma una singola persona che si apparta per uccidersi.   La tecnica di ripresa è la stessa,  ricca di salti temporali, di controcampi, e di lunghi piani-sequenza, che inquadrano gli studenti di spalle, mentre attraversano i corridoi o salgono le scale della loro scuola. Nell’aria c’è qualcosa, ma è impossibile dargli una forma precisa, in mezzo ai molteplici drammi, più o meno gravi, che interessano i vari personaggi: Marcus, che soffre per le imposizioni di un padre autoritario, sua sorella Melody, che custodisce un terribile segreto, Luke, che aspira a diventare un atleta ed è insofferente nei confronti dello studio, Sean che è malvisto perché dichiaratamente gay, Sarah che sogna un matrimonio romantico, ma non è compresa, Steven che è affetto da un imbarazzante handicap fisico. I loro casi dimostrano che non esiste il problema dell’adolescenza, perché ogni giovane vive in una specifica parte della realtà, determinata dalla sua situazione familiare, dalle sue inclinazioni individuali, dal particolare tipo di sensibilità con cui percepisce la propria vita e gli eventi del mondo circostante. L’universo in cui si muovono questi ragazzi è come un turbine multicentrico, un sistema di vortici che isolano ognuno dentro la sua personale tempesta. La tensione che si percepisce in questo film è la somma tumultuosa di tante diverse angosce, che restano sepolte dentro l’anima, e che sono impossibilitate a comunicare tra di loro. I compagni di scuola parlano, scherzano, giocano insieme, però le loro esistenze scivolano una sull’altra, venendo a contatto solo in superficie, senza arrivare a toccare le inquietudini più nascoste, più gelosamente tenute a bada dalla vergogna, dalla paura, dalla necessità di conservare le apparenze. Le dinamiche del gruppo si fondano su un gioco di ruolo che soltanto nelle retrovie, negli sgabuzzini, nelle toilette, rivela tutta la sua studiata e sofferta falsità. Alla luce del giorno si presenta un volto forte, scanzonato, magari indifferente, che, negli angoli bui, deflagra in rabbia, in pianto, in disperazione. A questo doppiofondo dell’esistenza il regista dedica brevi intermezzi in bianco e nero, in cui i protagonisti, ritratti singolarmente, in primo piano, confessano i propri sogni e le proprie preoccupazioni, come rispondendo ad un’intervista. A fronte della scena iniziale, che allude ad un suicidio solitario, consumato dentro un bagno della scuola, si ha l’impressione che quella calma con cui i giovani aprono i loro cuori ad un interlocutore invisibile, ma certamente presente fuori campo,  sia l’effetto del trauma subito: un fatto sconvolgente che ha ridimensionato le loro ossessioni, ricollocandole entro la cornice delle difficoltà del vivere, delle sventure che possono accadere, e che vanno affrontate con determinazione e serietà, e, soprattutto, a viso aperto, senza trincerarsi dietro pudichi silenzi o fuorvianti isterismi. Lo choc che scioglie i nodi del dolore e lo trasforma in parola è la profonda anima poetica di questo film, che mette a nudo la verità con una semplice miscela di durezza e candore. Il messaggio passa attraverso una crudele lezione di sincerità, che è anche un’esortazione all’ascolto, all’attenzione, a tutto ciò che salva dal devastante inferno dell’indifferenza.

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