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The Woman in the Rumor

Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film

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La recensione su The Woman in the Rumor

di OGM
8 stelle

Non una casa da tè. Un postribolo. Frequentato da uomini rozzi, a volte violenti, a volte semplicemente ridicoli, assistiti da giovani donne servili non per vocazione, bensì per necessità. La casa Isutsu di Kyoto fa parte della banalità della vita, è uno dei tanti vivai degli istinti che si nascondono all’ombra della civiltà. Eppure è, allo stesso tempo, un raffinato tempio della sensibilità. La realtà dell’amore e della sofferenza lo attraversa scuotendone l’anima fragile con un brivido di timorosa passione. La proprietaria  si è invaghita di un giovane medico. Sua figlia Yukiko, nella solitudine, ha tentato il suicidio per una delusione sentimentale. Tra le  geishe  c’è chi sta male: Usugumo  ha terribili dolori al petto; Kisaragi è infelice e vorrebbe fuggire con un cliente che le fatto delle promesse. Tutte queste donne, intanto, si immaginano un futuro migliore. Yukiko, che si è trasferita a Tokyo per studiare il pianoforte, crede che quel luogo appartenga ad un vergognoso passato, che la scredita agli occhi della società. È una ragazza moderna, che vive di ideali, ma non ha la forza per difenderli con la lotta. È un personaggio romantico, emancipato solo in apparenza, perché, per lei, la libertà è un’utopia che non tiene conto della presenza del male. Sua madre, per contro, è pragmatica per mestiere, ma sognatrice per inclinazione: nella propria attività vede un modo per onorare un’antica tradizione familiare e creare qualcosa di buono ed importante, come salvare le sue ragazze dalla miseria, garantire a sua figlia un’istruzione, mettere su casa con l’uomo del suo cuore. Questi desideri riecheggiano nello squallore di quel luogo come il fruscio della seta: sono palpabili accenti di bellezza posati su una routine che, per il resto, segue gli ordinari ritmi di una fisiologia animale.   Tra le programmate premure di quelle eleganti cortigiane si insinua il palpito delle emozioni incongrue, perché indisciplinate,  quelle che il nobile teatro No usa ridurre a caricatura. Il quadro appare graziosamente scompigliato da un disordine che è un residuo di  una speranzosa dignità, un poetico margine di ribellione sottratto alla volgare schiavitù del bisogno. Positività è essere consapevoli della propria condizione e delle proprie scelte, per quanto queste possano essere amare ed umilianti, e non rassegnarsi all’idea che nulla potrà mia cambiare.  Le protagoniste femminili sono portatrici di quel pessimismo illuminato che è il fondamento dello spirito riformatore: il suo principio è la serena accettazione dello stato delle cose come base su cui cominciare a costruire il nuovo.  La prostituzione è un fenomeno ineliminabile, così come non è modificabile la natura dell’uomo. Ci si può trovare nel ruolo della tenutaria o in quello della prostituta per il semplice fatto di non avere alternative. Eppure si può continuare a conservare la propria integrità: è sufficiente che, in ogni caso, il discorso che si intraprende abbia costantemente al centro la persona. Yoshikata Yoda, cosceneggiatore di questo film con Masashige Narusawa, aveva già collaborato con Kenji Mizoguchi per  Vita di O-Haru, donna galante (1952) e per Gion bayashi (1953), entrambi imperniati sul tema dello sfruttamento del corpo femminile.  Dal primo, questo film riprende il lirismo a sfondo morale, dal secondo il rude realismo, fondendoli in una sintesi che riporta la poesia sulla terra, e solleva la durezza con lo slancio della compassione; e, in questo modo, dà forma a quella sostanza mai troppo astratta, e mai del tutto concreta, che noi, comunemente, chiamiamo umanità

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