Regia di Leszek Dawid vedi scheda film
Cosa farai quando la incontrerai? Non ti piacerà. Sono i due diversi sottotitoli apposti sulle locandine di questo film. Scritte che accompagnano il primo piano di lei, che di nome fa Kinga, ma che si fa chiamare Ki, ed è una giovane donna polacca. Ha un bambino piccolo, Piotrus, ed un compagno, Antoni, con il quale i rapporti sono molto tesi. Con Ki è davvero difficile convivere. Il suo carattere, impulsivo e dominante, trasforma l’ambiente che la circonda nel teatro di un caos molto creativo, ma inaccessibile agli altri. Tutto le deve appartenere, e in un modo che è lei a decidere. Non ha rispetto per niente e per nessuno, ma senza cattiveria: la tirannia a cui sottopone il prossimo sembra il frutto, più che del cinico progetto di una donna calcolatrice, dell’ingenuità di una bambina viziata. Ki prende, usa e getta, le cose come le persone. Il mondo, intorno a lei, diventa così funzionale alle esigenze del suo io, che è costituito dalla personalità fragile ed instabile di una madre fondamentalmente sola, e dall’anima inquieta e vulcanica di un’aspirante artista d’avanguardia. La sua esistenza è una psichedelica successione di idee improvvisate ed occasioni colte al volo, una fantasmagorica superficialità che pretende invano di integrarsi con la normalità. Ki ci prova in continuazione, a disegnare la vita a suo piacimento, risultando immancabilmente vincente: i suoi estemporanei bozzetti si applicano alla realtà imprimendovi la sua inconfondibile impronta dai contorni originalmente frastagliati, arruffati dall’incostanza e dalla instancabile volontà di reinventarsi ogni volta per ricominciare daccapo. Sembra strano che un personaggio la cui storia è un paesaggio dipinto a secchiate di vernice possa dare vita ad una sceneggiatura così nitida e incisiva: è come se la sua testarda singolarità si trasformasse in tagli netti, in schiaffi dati provocatoriamente in faccia al mondo, per distoglierlo dal suo ottuso rigore, umiliandone l’imbelle convenzionalità. L’esempio di Ki insegna a vivere secondo l’istinto, senza però rinunciare a una certa progettualità, fantasiosa e mutevole, ma perseguita con incrollabile determinazione. Ki è sicura di sé, perché nutre un’assoluta fiducia nella propria capacità di farsi largo a suon di errori, di scelte avventate, di ripensamenti. Attraversa le difficoltà del quotidiano come un rompighiaccio, che spesso sbaglia strada, però non si incaglia mai. Per lei non esistono vicoli ciechi, poiché ogni muro può essere sfondato, senza far troppo rumore, con soltanto un pizzico di disarmante malizia. La sua forza penetrante è un piatto dal sapore piccante, in cui si mescolano il gusto pungente di una triste rabbia con l’odore acre di un’amara euforia: piangendo, la sua bocca chiede un aiuto per ricostruire, ridendo, invece, la sua mano ghermisce per distruggere. Non possiede, tuttavia, la sovrumana inflessibilità di una supereroina dei fumetti: prima di agire si ferma un attimo a riflettere, quel poco che basta a convincersi, ancora una volta, che la vergogna è una debolezza passeggera che si può superare in un soffio. Solamente alla fine scoprirà che il suo lato vulnerabile è quello che ha costantemente sotto gli occhi; è una parte della sua stessa carne, che, però, non ne condivide la resistenza agli eccessi, e non è altrettanto insensibile a quell’eterna incoerenza che scompiglia le abitudini e butta all’aria ogni punto di riferimento. Qualcuno ha definito Ki una rarità nel cinema polacco: in effetti, vi si scorge un realismo privo della portata filosofica universale di Kieslowski o Zanussi, però ugualmente pieno di un respiro vitale che non cessa mai di far vibrare il testo, modellandolo sulle forme di una creatura che attribuisce, ad ogni suo gesto od espressione, la profondità del mistero di ciò che è tanto autentico quanto insondabile. Una donna “insopportabile” che, però, a dispetto di quanto ci viene preannunciato, è forse impossibile non amare.
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