Regia di Lav Diaz vedi scheda film
"Tutti noi andremo...nella Casa del Padre".
"Domani in cosa mi reincarnerò? E che tipo di clown sarò? Per mascherare gli sconvolgimenti come le sabbie mobili intorno ai miei piedi. Per nascondere i crimini che tormentano la mia sanità. Per sotterrare la tristezza che pervade la mia anima fragile. Per negare la mia vera faccia, la mia vera identità. Cosa, mi chiedo, avviene nel mio mondo, se io sono così stanca in ogni cosa che faccio? Di chi è l'universo se sono tutti come me, tutti che non hanno la pace della mente? Sono un uomo o un pazzo? Lo scemo del villaggio...".
Century of Birthing è un rito, l'archetipico filmico, la nascita dell'arte. Gli esseri umani si muovono in un mondo immobile, in cui ciò che è concreto va deformandosi e scomparendo per lasciare spazio all'arida consapevolezza, unica e inflessibile, della nostra esistenza, del nostro divenire permanente e al contempo della nostra costante inconsapevolezza di tutto ciò che è Verità. Sfuggiamo, siamo evanescenti, ci disperdiamo nel vuoto denso del paesaggio, della Natura, degli istinti, delle riflessioni. Il film di Lav Diaz raffigura e concretizza, nei suoi lunghi silenzi e nei suoi mastodontici sguardi contemplativi, che dànno spesso l'idea di una fotografia in movimento, il procedere inafferrabile del pensiero, della riflessione, tanto che tutto Century of Birthing, che, inutile dirlo, impone allo spettatore un'attenzione massima nonostante le lunghe attese e le infinite palpitanti osservazioni, sembra ritrarre il senso stesso della riflessione, ovvero l'atto creativo, filosofico ed esistenziale di un regista alle prese con se stesso e con una sua creatura artistica, da sviluppare e da concludere anche a partire da una realtà che sempre più sfugge e che sempre più si rivela contaminata da un'umanità che chiede, prega e desidera rinascere, sebbene in svariati modi differenti. Fratturando la trama in tre nuclei fondamentali, Diaz affonda il suo sguardo, contratto al contempo tra un tono apocalittico e un tono fortemente primordiale, in esseri umani che cercano con vari metodi un modo per appagare loro stessi, per sfuggire all'immensa ecatombe delle anime di un popolo che va sempre più perdendo le proprie radici culturali (vedi la costante poliglossia di Homer, il protagonista regista, e dei personaggi che lo circondano) e sembra invaso sia dalle riflessioni filosofiche dell'Occidente (il quesito sull'Essere di Heidegger, e i referimenti di Remedios al personaggio addirittura di Bonifacio VIII) sia da quell'incomunicabilità che caratterizza certa cultura dell'Estremo Oriente (il poster di Che ora è laggiù? di Tsai nella casa del regista Homer). Il primo nucleo si incentra sulle storie che girano attorno alla comunità di padre Tiburcio, santone che si dichiara profeta di una Casa che salverà l'intera umanità, e di un fotografo che incuriosito si aggira in quella desolata campagna tanto da avvicinare le intoccabili vergini e da scoprire di più di quella setta che però non si dichiara tale da un altro fedele che come invasato si mette a cantare 'il capolavoro di Tiburcio', a indicare sempre e comunque che siamo destinati a tornare 'alla Casa del Padre'. Il secondo nucleo guarda agli eventi inerenti Homer e la sua latente attività artistica: come frenato da un 'blocco del montatore', si accorge sempre più sconvolto di quanto le immagini del suo film attualmente in costruzione (o Donna del vento o Storie di corpi) siano profondamente simili alla sua stessa vita, specie negli andamenti, nei ritmi, nei vuoti e nelle varie dimensioni che lo attraversano. Il mondo del film di Homer, che noi osserviamo attraverso il suo portatile o attraverso un indicativa riduzione dell'immagine, non solo costituisce il terzo nucleo dell'intero schema narrativo di Diaz, ma è anche uno specchio deformato e alternativo di una realtà che sta lentamente perdendo significato e che vaga intorno agli esseri umani ripiena di stimoli monchi, di occasioni sprecate e di delusioni esistenziali. Mentre Homer cerca nell'amicizia con Remedios e Anna un modo per uscire da un vicolo cieco che è la sua attività creativa, la protagonista del suo film, una suora, chiede a un uomo di farle provare le sensazioni proprie del sesso e dell'amore per 'dare un senso alle parti del suo corpo', per spiegarsi ancora di più in cosa consista il peccato.
I personaggi di Century of Birthing sono identità implose, schiacciate da un incedere esistenziale inerte e privo di catarsi, un andamento quotidiano di cui Diaz ritrae perfettamente la malinconia e l'abisso, eliminando le ellissi e scrutando sempre teso e mai rilassato il confronto costante dell'uomo con la natura, e le sue immense tribolazioni. Il vuoto degli spazi e dei tempi è il contenitore della stessa attività speculativa dello spettatore, posto di fronte a un lung(hissim)ometraggio in cui la trama non si infittisce, i passaggi narrativi si svuotano di vera e propria importanza e tutto il ritmo è sancito da uno sguardo che attentamente scruta, formalmente si rafforza e definitivamente sfinisce, non perché tedioso, ma perché spaventosamente capace di coinvolgere intellettualmente, di riempirsi, di ritrarre e far comparire dal nulla l'atto stesso del pensare. Tutta l'estetica del film di Diaz, che il più delle volte si esibisce in lunghi immobili piani-sequenza, se non quando porta a mano la telecamera per 'inseguire' i suoi personaggi - cosa che ha fatto anche in altri suoi film - o quando esegue panoramiche orizzontali o verticali - come mai in Death in Land of Encantos e in Melancholia faceva -, si incentra sull'alternanza immanente e spesso catatonica di sogno e realtà, di oggettivo constatare di uno stato emotivo (pianti, urla, lamenti) e di soggettiva immersione nell'immaginazione (spesso quando la natura e il soggetto perdono il suono e tutto si immerge in un silenzio tombale che rende certe immagini realmente inquietanti). I suoi uomini e le sue donne, sebbene strettamente connessi alla loro dimensione carnale (e alla sua corruzione, come avviene in Melancholia), sono anime purganti staccate dalla loro stessa condizione umana, protese alla riflessione e alla sofferenza. Tutti cercano di rielaborare il legame con il proprio corpo, la suora riscoprendolo e Tiburcio professandone un totale distaccamento, per scoprire infine quanto qualsiasi atto umano si risolva in un nulla di fatto e tutto rimanga costantemente asemantico, 'privo', insensato. La stessa identificazione dell'anima riflessiva di tutti personaggi con il buio procedere dell'essere è un qualcosa che si priva di possibilità, si autoelude, si mortifica tramite quella che è la sofferenza per la propria maschera, per la propria 'mancanza' esistenziale e per la propria incapacità di rapportarsi al mondo in maniera sincera e completa, forse perché il mondo rigetta qualsiasi avvicinamento o forse perché l'uomo non è fatto per capire qualcosa della Verità. Riprendendo così un tema lanciato in Melancholia ed esasperato in precedenza in Death in the Land of Encantos (in cui a morire e a retrocedere era la stessa coscienza, la stessa mente umana, in un progredire apocalittico di immagini), Diaz raffigura spesso uomini e donne riflessi, o in uno specchio, o in un loro ricordo, o nell'immensità della natura (che rispecchia la loro insignificanza) o nello schermo di un computer, in una propria creazione fideistica/artistica/creativa, come a raccontare come sia totale e definitiva la distanza che si instaura fra l'uomo e la sua stessa rappresentazione, specie nella sequenza in cui padre Tiburcio capisce che l'idillio fondamentalista della sua Casa si è rotto e decide di prendere una soluzione estrema tagliandosi la gola. Perché è tutto un costante fallimento, tutto un'agghiacciante "anti-catarsi", tutta una litania che crede e si illude di raggiungere, prima o poi, la 'Casa del Padre', sempre nella maniera sbagliata, sempre nella maniera più estrema e autodistruttiva.
Se tutto questo avviene però a livello contenutistico, Century of Birthing è interessato anche a riflettere esplicitamente sul suo stesso assetto formale, cosicché il suo stesso guardare, scrutare e contemplare diventano riproduzione di un (non)senso reale, una riproduzione più fedele di una qualunque pellicola che si dica realista; e dunque, in un certo senso, Diaz esce vincitore dalla sfida per cui il suo cinema deve saper 'riacquistare il ritmo dell'esistere, dell'essenza e degli esseri umani', non semplicemente allungando i tempi, ma colmandoli dei pensieri degli uomini (e dello spettatore) e infine destrutturandoli, comprimendoli, facendoli esplodere fra uno stacco e l'altro, così da far nascere e morire, tantissime volte lungo l'immensa pellicola, il pensiero dello spettatore. E' pur sempre vero che la risposta che dà l'intervistatore a Homer, a metà film, è che "il cinema è essere", perché il Cinema è potenza e atto, l'Arte è in grado di cogliere l'esistenza ancora di più della semplice Vita. Così, nella rielaborazione dei ricordi e dei propri desideri trapassati (resa possibile dal potere del Cinema), Diaz racconta ed evoca le situazioni più disparate (rapporto madre-figlia, rapporto d'amicizia, rapporto d'amore, il sogno, il ricordo, la cultura) per narrare come il vuoto fra gli esseri umani sia colmabile tramite l'Arte e come lo stesso osservare (e immaginare) sia un atto di estrema ribellione nei confronti dell'esistenza e, paradossalmente, nei confronti di noi stessi. Partendo da un fatto concreto (lo sguardo sul fondamentalismo, criticato sia da Homer che dal fotografo, che violenta una delle vergini di Padre Tiburcio), Diaz astrae il suo mondo (rappresentato) dispiegando immagini di esseri umani che si muovono invano, che vanno incontro a qualcosa di inesistente, che in effetti 'vagano', 'errano' e 'si confondono', senza appagarsi, senza rendersi felici. Il loro è un pellegrinaggio fallace e crudele verso l'oblio, l'assurdo, l'inessenziale, un po' come se Century of Birthing fosse l'estensione terrificante e agonizzante di Evening Sacrifice di Sokurov, che nella sua piccolezza riusciva ad evocare più di mille sensazioni. Nella confusione di dimensioni, Diaz scopre l'anima, lo spirito dell'uomo, una sostanza inerte e recalcitrante, che cerca di rinascere e rifugge la rassegnazione. Fino a un finale splendido in cui il dolore di un parto (non rappresentato) in uno sfondo sterminato stacca su piccoli dettagli e piccole immagini, con cui Diaz dimostra di essersi avvicinato al reale, di averlo rappresentato, illustrando come l'Arte, ispirata dalla Natura, sia l'unica forma disinteressata che tiene vivo l'uomo, in una conclusione parzialmente ottimista che smentisce Death in the Land of Encantos e ne rappresenta l'evoluzione. Il secolo della nascita è il momento in cui l'uomo sa esistere e dare un senso monco e assurdo al suo esistere: vagare senza la consapevolezza dell'assenza della meta, urlare, gioire, addolorarsi, correndo con le braccia aperte, sbraitando frasi demenziali, facendosi accogliere nella vera Casa del Padre: l'Arte è Follia, perché l'intera esistenza è una folle recita.
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