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Century of Birthing

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Century of Birthing

di Azrael
9 stelle

Century of Birthing, o l'arte come atto di fede. 

 

 

Cos’è il cinema? Il cinema è la prassi; il cinema è la mia ideologia; Sono impegnato in quest’arte; Torniamo a quanto disse Martin Heidegger; “Ai nostri tempi abbiamo una risposta alla domanda sul vero significato della parola “essere”?

Lo sto ancora cercando.

 

 

Camus diceva che l’uomo è l’unica creatura che rifiuta di riconoscersi in quello che è. L’uomo punta inesorabilmente al cielo. Eppure per ritrovarsi ed autodeterminarsi bisogna che egli ritorni alla sua dimensione di uomo, di creatura terrena. Solo a partire da questa condizione è possibile una rivolta verso il cielo. In modo o nell’altro, tutti gli uomini devono fare i conti con il proprio esistere in quanto creature mortali e finite di fronte all’abisso oscuro dell’esistenza (quest’ultima espressione di Nietzsche). Century of Birthing può essere definito un film sull’essere. Ciò a cui ambiscono i personaggi in scena è l’accesso a qualcosa di irreale, una dimensione immaginaria, un sogno. Una possibile via di fuga ad una condizione di vuoto dell’esistenza.

 

Le vicende del film si svolgono sullo sfondo di un’epoca di nichilismo compiuto e di vuoto. Un viscerale affresco della desolazione umana. Gli spazi in cui si muovono i personaggi richiamano scenari da fine del mondo, un’apocalisse ormai avvenuta. Risuonano ovunque gli scroscii di una pioggia perenne, simbolo di perdizione sotto la quale gli uomini si muovono come reietti nella solitudine.

Regna incondizionata la tristezza. Un’infinita tristezza che impone ai singoli individui la sfida di sostenere le proprie esistenze e fare i conti con il vuoto soverchiante che attanaglia il mondo. Questa concezione dell’essere era già forte in Melancholia, pellicola rispetto alla quale Century of Birthing si pone in diretta continuità (vari elementi lo suggeriscono, a partire dalle figure speculari delle due donne). Se in Melancholia ci troviamo “all’interno del bosco”, nella nera selva della tristezza eterna dalla cui prospettiva assistiamo direttamente alla desolante condizione dell’uomo, in Century of Birthing si tenta di analizzare questa condizione. Si indaga sulle molteplici “way of coping” (espressione del film, traducibile come “modi di affrontare”) degli uomini alla desolazione. Tentativi di ricercare una risposta, una reazione, uno sfogo al peso delle loro esistenze. Esiste un filo comune che mette in relazione questi tentativi, a partire dal quale Laz Diaz costruisce un rigoroso ragionamento sul ruolo e la genesi dell’arte e in particolare del cinema.

 

Homer è un regista tormentato che indaga sul cinema, la forma d’arte attraverso la quale egli si confronta con la desolazione dell’esistere. La sua personale “way of coping”. Ma come nasce l’arte? Essa nasce necessariamente da un conflitto, quello tra l’individuo nella sua singolarità e il mondo dove esso cerca di affermarsi, di lasciare un segno. In Century of Birthing l’arte è una “way of coping” nei confronti di una condizione di vuoto.

Nella lunga sequenza finale del film Homer si protende verso il cielo mentre urla di liberazione o di rivolta. Può essere considerata una rappresentazione del conflitto che produce e genera l’arte. Si tenta l’accesso al cielo, eppure si rimane irrimediabilmente legati alla terra. L’arte diviene una possibile soluzione per controllare le inquietudini terrene dell’anima e dell’essere, per domare la spinta verso il cielo. 

 

Nietzsche parlava di un origine religiosa dell’arte, che identificava nelle origini della poesia come forma rituale per comunicare con le divinità. Un inganno che l’uomo si impone per chiedere sostegno a supposte forze superiori.

Il film si apre con una scena simile: un rito ancestrale in un’enorme palude desolata. Di nuovo le braccia al cielo, un altro tentativo di elevazione/catarsi. Eppure non si tratta di una rappresentazione artistica, ma di un culto religioso integralista. L’ arte e il culto sono quindi metodi complementari per rispondere alla stessa necessità, allo stesso conflitto. Questa comunanza si ripresenta più volte nello sviluppo del film. Tramite l’incontro del fotografo vagante (altra rappresentazione dell’artista come Homer) e gli adepti del culto. Oppure la tragica figura di padre Tiburcio, un ex-attore (ergo anch’egli artista) divenuto leader di un gruppo religioso radicale. Tiburcio vive un’esistenza inautentica, la cui unica attività è quella di indossare maschere per sostenere il proprio essere e cercare un senso nel vuoto. La ricerca di un’elevazione oppure di un senso laddove non è possibile. La sua fine che sfocia nell’autodistruzione di se stesso è estrema ma logica conclusione del suo rifiuto verso la condizione terrena e i suoi tentativi di sfuggire o nascondersi al caos dell’esistere.

 

Tra gli iniziati al culto ogni forma di impurità è considerata come un empio ritorno alla terra (il personaggio della vergine cacciata dal gruppo, una delle due donne chiave del film), un’eresia che ostacola il tentativo di elevazione dello spirito dalla carne, dalla terra. Il percorso della vergine passerà dallo stupro da parte del fotografo (che funge come un atto di liberazione, scatenando il suicidio di Tiburcio) per poi finire nel parto, concepito come un definitivo ritorno alla terra. Il supremo atto terreno. Dall’altro lato (nel film di Homer, una sorta di personale rito di purificazione) il personaggio fittizio di un’ ex-suora che rivendica la propria umanità (“nuns are human beings after all”) tormentata da “issues of my physical being” sente una pulsione autodistruttiva (“need to destroy the physical living”) e mette in atto un estremo atto di masochismo come tentativo di evasione dalla condizione caduca e triste dell’uomo.

 

L’arte si pone quindi al centro del conflitto umano tra materialità e spiritualità (il legame tra la figura dell’ artista e gli adepti del culto), mentre il cinema diviene una possibile “way of being” (non più semplicemente “of coping”). Una forma di fede (“that’s faith”, esclamazione di un giornalista in un dialogo con il regista Homer dopo che questi ha descritto la sua visione del cinema) e quindi di essere. 

Il cinema come mezzo espressivo capace di contenere allo stesso tempo passato e futuro, “we will remember the world because of cinema”, una sorta di epitaffio delle esistenze umane. Le relazioni tra l’adepto e il fotografo, il regista e il (suo) personaggio della suora, una serie di simbolismi religiosi si mettono in relazione diretta con le forme dell’arte (cinema, fotografia). Questi elementi suggeriscono che la forma di fede che si persegue è tutto sommato la medesima, come una risposta al caos del mondo e possibile via di salvezza dell’uomo dalla desolazione. 

 

L'altra dicotomia centrale è quella simbolica tra la terra e il cielo, la condizione reale dell’uomo e la dimensione superiore alla quale egli si volge. Questa antinomia viene a più riprese espressa tramite la gestualità: sguardo rivolto verso l’alto, le braccia innalzate, il canto rituale. In una scena emblematica del film una donna (la vergine cacciata dal culto) si protende verso il cielo dopo essere salita su di un cumulo di terra rialzato. La scena rappresenta al meglio il legame indissolubile dell’uomo con la sua condizione di essere terreno, che mai avrà accesso ad una dimensione superiore nonostante la sua propensione al cielo e ogni tentativo di giungervi. Egli nasce dalla terra ed è destinato a rimanerci. 

A seguito della catarsi/liberazione finale nell’ultima sequenza del film, Homer accudisce la stessa donna in procinto di partorire. Il ritorno alla dimensione primordiale del parto, alla nascita tra sangue e terra dalla quale il titolo del film.

 

Tra cinema e meta-cinema (la soluzione del film nel film), Diaz riflette evidentemente in primis su se stesso e sulla sua idea del ruolo del cinema. La figura centrale del regista Homer (evidente alter-ego dello stesso Diaz), personaggio che introduce nel film anche una riflessione sul ruolo universale dell’intellettuale nella società.

Sono infatti presenti molti sotto-testi di natura socio-politica (come anche in Melancholia) riguardanti in primis il ruolo del potere e la coercizione imposta da un’autorità esterna. Diaz cerca sempre di intrecciare la sua visione del cinema e le storie che racconta con la storia recente delle Filippine: paese martoriato dai regimi e in perenne crisi identitaria. La crisi esistenziale di un paese si intreccia e va di pari passo con quella dei singoli individui. Non a caso film successivo (Florentina Hubaldo, CTE) avremo un’incarnazione delle Filippine in una donna.

Le Filippine rimangono il punto di partenza di Lav Diaz nello sviluppare la sua concezione del mondo e dell’essere. 

 

Gli estenuanti fermi-immagine (elemento già consolidato nel linguaggio di Lav Diaz) sono ancora una volta indice di una temporalità rarefatta fino all’eccesso (anche se forse in maniera meno intensa rispetto a Melancholia, che fungeva da riflessione sul vuoto stesso, senza apparente via d’uscita). Spiccano sprazzi naturalistici degni di nota: Diaz vuole immortalare l’immenso, il vuoto, l’infinito spazio dove gli uomini, cani randagi senza meta, sono costretti a vagare. I movimenti di macchina sono quasi completamente inesistenti, il montaggio si inserisce tra una sequenza e la successiva, frammento dopo frammento, anche a distanza di decine di minuti. Diaz opera per rarefazione, alienazione e straniamento nell’immagine, spesso senza adottare particolari soluzioni estetiche (anche se è presente la ricerca di una certa espressività, che però è una ricerca del vuoto).

Quello di Diaz è un cinema dell’immagine portato alle estreme conseguenze. L’immagine si pone a confronto diretto con lo spettatore, il quale, se disposto a stare al gioco, verrà trascinato come da una forza magnetica.

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