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Regarde la mer

Regia di François Ozon vedi scheda film

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La recensione su Regarde la mer

di OGM
8 stelle

Dopo una serie di cortometraggi, il ventinovenne François Ozon debutta “in lungo” con questo singolare film: un dramma silenzioso, che, per tutti i cinquantadue minuti della sua durata, si mantiene diabolicamente sospeso tra il carisma della seduzione ed il terrore della follia. Il quadro, apparentemente pacifico, di una giovane donna che trascorre una vacanza al mare con la figlioletta di pochi mesi, sembra destinato fin dall’inizio ad essere turbato da un timore indefinibile: un senso del pericolo incombente, che riempie il vuoto di quel luogo solitario e appartato con la stessa invasiva intensità del sole, del vento, dell’odore di salsedine. Il tutto e il niente si incontrano in quello scenario tranquillo e luminoso che, da un lato, sembra interamente occupato dalla grandezza dell’amore materno, dall’esclusiva magia che governa il rapporto tra una madre e la sua bambina; dall’altro sembra troppo bello, innocente ed indifeso per sfuggire allo sguardo avido ed eternamente vigile del male. Felicità e bontà sono concetti fragili, che nella realtà sono costantemente sotto assedio, minacciati internamente dalle tentazioni dell’istinto, ed esternamente da invidie, gelosie e perfidie di varia natura. La famiglia è un involucro soffice e tenero, tenuto insieme da legami che si possono spezzare da un momento all’altro: occorre diffidare del mondo, come di se stessi, perché basta una piccola, fugace ispirazione per far deviare l’individuo dall’abituale retta via. L’ambiguità è la forma e la sostanza di quell’insidia strisciante, che assume sia la veste passiva dell’incertezza sia quella attiva della finzione, risultando così presente su entrambi i versanti del confronto, sia nel cuore della vittima, sia nella mente del carnefice. L’universo di Ozon è pieno di figure che si muovono sul sottilissimo crinale che separa gli opposti, sia perché, loro malgrado, sono in bilico tra due possibili identità (come il protagonista del corto Une robe d’été, che forse ama gli uomini, e/o forse le donne) o si trovano al confine tra due dimensioni contigue e contrastanti (la vita e la morte, come  Romain ne Le temps qui reste),  o, al contrario, perché, intenzionalmente, praticano la falsità e conducono una doppia vita (come i personaggi di Otto donne e un mistero). In questo suo primo mediometraggio, la trama si basa unicamente su un fine gioco di indeterminatezza, una leggerissima danza di equilibri precari che tracciano un percorso oscillante, senza però mai veramente sbandare. Il dualismo tra le due protagoniste della storia - la madre della bambina e una vagabonda sconosciuta che si sistema  nel suo giardino con una tenda canadese – è l’origine di una tensione palpabile, però dal carattere imprecisato, che segna le differenze senza decidere la direzione da prendere. Attraverso le due donne si fronteggiano la luce e il buio, l’amore e l’odio, la pulizia e la sporcizia,  e i due poli si attraggono e respingono in maniera appena accennata, con la madre che diventa un po’  vagabonda, e la vagabonda che diventa un po’ madre, ma, fino all’ultimo, senza  nessuna aperta immedesimazione nel ruolo dell’altra.  Questa strana partita  è una contesa disputata a distanza, in cui sperimentazione e sfida si intrecciano in maniera prudente, benché mirata, e la forza e la debolezza di specchiano a lungo l’una nell’altra, prima di giungere alla fatale soluzione del conflitto. La storia, in altri termini, è tutta nel movimento che precede e accompagna le azioni, nelle dinamiche psicologiche che fanno da contorno ai gesti e alle parole.  La chiave di lettura supera dunque il piano strettamente narrativo, per collocarsi su un livello in cui le componenti fondamentali del discorso sono le intenzioni, le intonazioni, le allusioni. A tratti si ha persino l’impressione che l’opera ammetta una chiave di lettura ancora più elevata e astratta, ossia che,   sui due lati della barricata, si trovino, oltre a due antitetici modi di essere, due distinti modi di rappresentare il realismo cinematografico: il primo consiste nell’adottare, semplicemente, una visione diretta e fedele della quotidianità, il secondo prevede invece di estrapolare, da quest’ultima, gli elementi salienti  per farne un riassunto artistico e pregnante. Le due donne sono ritratte secondo queste due diverse modalità, che sono poi, a ben pensarci, i due volti della nouvelle vague: quello di stampo documentaristico che parla, senza mediazioni, il linguaggio dei fatti,  e quello a sfondo intimistico, che non rinuncia al simbolismo, all’interpretazione dei significati nascosti, e, in generale, alle trascrizioni visive del pensiero. Regarde la mer è un film dall’aspetto modesto, esile e rarefatto, che potrebbe addirittura sembrare sbrigativo nello sviluppo del racconto e nella caratterizzazione del personaggi: e invece è un raffinato schizzo dell’ansia dell’ignoto, dell’inconfessabile, del non detto che, in ogni istante, sovrasta, inquietante, le nostre piccole esistenze.

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