Regia di Yesim Ustaoglu vedi scheda film
Una madre dal viso antico, contadino, Nusret. I suoi piccoli lavori casalinghi. Sorride uscendo sul ballatoio della casa di legno tra le montagne dell’Anatolia in cui vive sola.
Un’ombra sul viso, improvvisa.
Guarda verso un punto lontano, si gira e torna dentro. Bacche rosse cadono rotolando sul pavimento di legno.
Ventagli d’acqua si alzano dalle macchine sull’autostrada, tre figli corrono in cerca della madre che si è persa fra i boschi,gli sguardi riflettono il mondo circostante, sembrano esausti, come svuotati.
Quel viaggio diventerà uno sguardo sul vuoto, alla scoperta di sè e della polverizzazione dei legami sociali e familiari sopravvissuti stancamente nell’abitudine quotidiana di vite sradicate.
Una barella, un’ambulanza, una diagnosi: Alzheimer.
La vecchia Nusret e il suo declino neuronale sono l’emergenza del momento, addio ai boschi e al tempo che fu, bisogna chiuderla fra le bianche pareti della casa di Nesrin, la figlia sposata.
Spazio asettico e tecnologico, grande schermo TV sempre acceso e grandi finestre che guardano sui grattacieli di fronte.
E’ Istanbul, ma potrebbe essere una delle indistinguibili periferie del mondo.
La perdita di memoria di Nusret è la continuità negata, la sconfitta del tempo.
Gli splendidi panorami della Turchia rurale che precipita nel mare dai suoi fianchi scoscesi hanno ceduto il posto a grige autostrade e sobborghi di cemento, interni di decoro borghese e periferie di piccoli traffici illegali, vicoli scrostati e mucchi di spazzatura agli incroci.
“Chi mi ha portato qui?” chiede Nusret a Murat, il nipote sedicenne che non riconosce “Non ricordo niente”
“Non ricordare, è meglio” fa il ragazzo.
Di fronte a loro, di spalle su una panchina in una delle scene più struggenti del film, sull’altra riva dello Stretto, case su case si arrampicano lungo la costa, un mostro uscito dal mare ha divorato la terra, ora irriconoscibile.
Quarto lungometraggio di Yesim Ustaoglu, ilfocus sul tema della disgregazione sociale e famigliare, della solitudine e della perdita dei punti di riferimento di creature fragili, smarrite nel labirinto della modernizzazione, tornerà anche nell’ultimo lavoro, Araf - Somewhere in Between, presente in Orizzonti a Venezia69 di cui aspettiamo di vedere la declinazione.
Qui la carta vincente ad interpretare la vecchia madre è Tsilla Chelton, al tempo la "zia Danielle" di Etienne Chatilliez (ancora ci si sta chiedendo perché in Italia sia diventata zia Angelina!),grande attrice di teatro (Ionesco) morta lo scorso giugno e già novantenne quando partecipò alla premiazione del film al Festival di San Sebastian.
La Chelton recita sè stessa, è il caso di dirlo, con il suo corpo vecchio e traballante che si muove a fatica fra gli oggetti sconosciuti della casa di Nesrin, si dispera nel buio dell’ascensore, si perde a giocare per strada con le uniche forme viventi per lei comprensibili, frotte di ragazzetti allegri.
Vecchia donna dagli occhi severi, guarda un mondo diventato assurdo e accarezza con dolcezza protettiva il nipote che la riporterà fra i suoi boschi.
Ci sono grandi vecchi nella storia del cinema, uomini e donne che denunciano con la loro sola presenza la drammatica perdita di un senso umano del vivere, in un mondo che non riesce più rientrare nei cardini.
Dersu Uzala e Alexandra, per citare solo due fra i più noti.
Ora c’è questa nonna Nusret, organismo obsoleto in una società che ha perso i contatti col ciclo naturale della vita e della morte e si fa carico di un accanimento terapeutico ridicolo e doloroso sulla vecchiaia e sulla malattia, inutile sforzo di ripescaggio della propria coscienza abbondantemente rimossa.
Imamura creò uno dei suoi capolavori con la vecchia, indimenticabile Orin de La ballata di Narayama, che aspetta la morte sotto la neve che scende sul monte e ricopre pian piano il suo corpo.
Ustaoglu sembra porgergli omaggio, assimilando Nusret alla vecchia madre giapponese che sa quando è il momento di allontanarsi per riunirsi al sacro spirito della montagna.
Nusret sparirà nel verde dei boschi mentre, dal pendio davanti alla casa di legno, lì dove ha scoperto il vecchio slittino dei bambini di una volta, Murat la guarderà andar via.
Il ragazzo ha lasciato le strade di Istanbul dove vomitava di paura, s’impasticcava e dormiva fra i bidoni di spazzatura.
Sono lontani padre e madre che non hanno più niente da dirsi e dirgli se non litigando, la scarmigliata e delusa zia Güzin sempre in cerca di amori impossibili e Mehmet, lo zio sballato che fuma e beve, catatonico, nel suo appartamento pieno di sporco e caos.
Vite da cui sembra sparita qualsiasi ipotesi di futuro, tutto quel che resta è un continuo, nevrotico rimestare in quel vaso scoperto da cui è uscito un po’ di tutto: vecchi rancori e nuove recriminazioni, eterni egosismi e immedicabili frustrazioni.
Pandoranin kutusu(Il vaso di Pandora), l’antico mito eziologico rivive e, come sempre, rivela.
Figlio di un’antropologia pessimistica che vede il mondo come un susseguirsi di ingiustizie, violenza e soprusi, il mito del vaso colmo di mali aperto da Pandora fu conseguenza di una sorta di peccato originale, quel furto del fuoco di prometeica memoria che avrebbe dovuto affrancare l’uomo dalla condizione ferina, regalandogli la téxne con cui domare la natura e alleviare la vita.
Il tradimento dell’uomo fu nel credersi Dio e dimenticare le eterne leggi della natura.
Il prezzo di quell’atto di superbia lo sta ancora pagando.
Pandoranin kutusunon si può dire un capolavoro, il tema non è nuovo e alcune soluzioni narrative risultano un po’ facili e prevedibili.
Al di là di questo, però, si riscatta nel modo accurato e non privo di emozioni che ha nel far incrociare i due percorsi divergenti, incarnati in figure e ambienti disposti con esattezza chiastica, la fitta foresta e la vecchia Nusret, il dedalo urbano e i tre figli in deriva esistenziale.
Murat, il ragazzo che dice "non ho una famiglia", che non risponde più al cellulare della madre che lo cerca, ossessiva, disperata e castrante, è ancora in tempo per salvarsi dalla contaminazione incombente.
Dal canto suo, la malattia impedisce a Nusret di assorbire virus ben più devastanti del morbo che l’ha colpita.
Entrambi riusciranno a ridare un senso alla vita e alla morte in un processo di immunizzazione che li tutela e li libera.
Saranno forse loro la Speranza che rimase chiusa nel vaso?
Ma la donna, levando con la sua mano dall'orcio il grande coperchio,
li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto.
Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell'orcio
per volere di Zeus egioco che aduna le nubi.
E infinite tristezze vagano fra gli uomini
e piena è la terra di mali, pieno n'è il mare;
i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte
da soli si aggirano, ai mortali mali portando,
in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus.
Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.
Esiodo, Opere e Giorni,vv.94-106
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