Regia di Gregor Jordan vedi scheda film
Cosa è lecito e cosa no nella guerra al terrorismo? Domanda insidiosa, specie se rivolta agli Stati Uniti post 11 settembre. Esiste un limite etico o morale oltre il quale non è possibile andare anche se ad essere in gioco è la sicurezza della tua stessa nazione? Il fulcro di "Unthinkable" sta proprio in tale dilemma e sebbene la posizione di Gregor Jordan sia evidente, la decisione finale appartiene sempre e comunque allo spettatore. È indubbio il fatto che regista, sceneggiatori e produttori di questa pellicola facciano tutto il possibile per pilotare il giudizio del pubblico ma il dubbio rimane. È normale, è umano.Il concetto alla base del film, in realtà, è tanto semplice quanto agghiacciante. Il sogno americano si è ormai involuto in un incubo paranoide e la difesa dei confini viene meno nel momento in cui la minaccia più grande arriva proprio da uno dei suoi figli prediletti. Un soldato, un mercenario senza più patria che, una volta diventato musulmano, decide d'impartire una lezione esemplare al governo che gli ha strappato l'anima e che tiene in scacco mezzo mondo. Il combattente è pronto al sacrificio e si lascia prendere per poter meglio chiarire il suo intento "educativo" ma non prima di aver attivato il countdown su diversi ordigni sparsi per la nazione, atti a mietere milioni di vittime. Ha così il via una gara contro il tempo con una posta in gioco altissima, la più grande che si possa immaginare: il futuro di un intero paese. L'unica possibilità di salvezza risiede nell'eventuale confessione dell'attentatore ma come ottenerla? Alle forze speciali non rimarrà altra opzione che la tortura. Ritmo serrato e situazioni limite per un thriller politico di buon livello che costringe a riflettere su questioni tutt'altro che trascurabili. Sia che s'inorridisca per la violenza fisica e psicologica, sia che si subodori un certo sensazionalismo nell'intento di alcuni passaggi, "Unthinkable" ha comunque il pregio d'innescare una qualche reazione nell'occhio di chi lo guarda e questo rappresenta già un traguardo. Per il resto il film funziona grazie ad un impianto quasi teatrale in cui sono i dialoghi a farla da padrone e dove l'azione è sacrificata in virtù dei diversi punti di vista offerti dai personaggi chiave della vicenda. Preziose diventano in tal senso le prove di Michael Sheen (il terrorista), Carrie-Ann Moss (lo sbirro buono) e Samuel L. Jackson (lo sbirro cattivo), tutti ben calati nella propria parte e decisivi nel gioco della parti che si viene a creare mentre lo spettatore decide da quale parte schierarsi. Qualche dubbio sulla spontaneità dell'operazione rimane ma quello che inquieta di più è il cinismo che alla fine ti porta a pensare: ma quella soluzione così estrema, può oggi risultare effettivamente impensabile? Dovrebbe esserlo, certo. Ma in un mondo afflitto da uno status di guerra eterna, non sorprende come dovrebbe.
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