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Nessuna pietà per Ulzana

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su Nessuna pietà per Ulzana

di EightAndHalf
8 stelle

Rinunciando a perdersi nella contemplazione dei paesaggi in stile John Ford e più interessato a arricchire tutte le singole sequenze di una grande tensione morale, Robert Aldrich dirige uno dei suoi film più belli e importanti, un'ottima operazione autoriale che rivela fin da subito l'intento di demistificare l'epicità e il tono crepuscolare dei western classici. Il West è cambiato dagli anni '70, in cui Burt Lancaster era un Ultimo apache disperso nel mondo prima suo e adesso cambiato e tutto 'bianco americano'; non è più la terra dei valori e degli ideali anche giovanili che si potevano esprimere nobilmente nell'azione militare. Adesso anche le intenzioni più corrette e cristiane diventano odio inarrestabile nei confronti di un popolo scacciato dalle proprie terre, un popolo spirituale e assai religioso, che non tanto ritiene sua di proprietà la terra, ma non la reputa alla stregua di un possesso, credenza da cui derivano le azioni e le tendenze decisamente anti-americane. Eppure, nonostante la domanda "Perché gli apache fanno questo?" si ripeta frequentemente del film, proveniente dalla bocca del tenente de Buin incapace realmente di comprendere passaggi spesso elementari, l'intento di Nessuna pietà per Ulzana non è certamente quello di un'apertura esotica nei confronti della cultura e della spiritualità apache, di una cultura ormai andata perduta (non c'è la partecipazione emotiva e sovente stucchevole del futuro Geronimo di Walter Hill, vicino a questo non solo per la simile storia); l'intenzione è chiaramente quella di riportare sullo schermo due schieramenti per antonomasia l'uno in contrasto con l'altro e dimostrare, come dice Burt Lancaster nel finale, che "la ragione non sta mai da una sola parte", e che tutto va ben oltre il semplice manicheismo. Di fronte a questa straordinaria lezione (a)morale, per illustrare la quale Aldrich destruttura il classico western e lo ristruttura secondo canoni moderni, con una regia grezza e rude e scene d'azione assai sanguinolente, la tensione per quanto riguarda le dinamiche caratteriali, molto ben sviluppate a dirla tutta, si converte nell'attesa trepidante del prossimo scontro fra gli indiani guidati da Ulzana e la pattuglia americana mandata per ritrovare i nativi fuggiti da una riserva (guidati appunto da Ulzana), e che sembra non possano avere altra intenzione se non recare panico e distruzione in giro per l'Arizona. Allo stesso tempo però gli americani, nelle strutture amministrative del loro esercito, fra ipocrisie, nepotismi e sciacallaggi assortiti, certo non spiccano per valori etici particolarmente prominenti, specie nella demolizione del mito western della 'paideia' (si perdoni il termine classicista), quel trasferimento di valori di padre in figlio (o di tutore in pupillo) che caratterizza gran parte della filmografia western di Nicholas Ray, John Ford e certi Don Siegel (Il pistolero) e che già in All'ombra del patibolo vedeva il suo totale fallimento, non però come conclusione di un'opera della portata del capolavoro di Aldrich, ma come climax finale assai demotivante e pessimista.
Intrigato dall'idea di lasciar scorgere, nel suo western anomalo e per niente invecchiato, tutte le contraddizioni esistenziali e comportamentali presenti nel 'buon americano che va in guerra', il regista americano scava dentro i suoi personaggi, ritrovando in Burt Lancaster un maestro/ispiratore di consigli raramente ascoltati, nel personaggio dell'indiano convertito la complessità dell'ambigua distribuzione di bene e male, e infine, ultimo ma non ultimo, in Bruce Davison quell'incolmabile frattura che si frappone fra morale cristiana e odio guerrafondaio, che spinge il piccolo giovane tenente (che si era già sfogato al cinema con Fragole e sangue di Hangmann) a negare i suoi precetti, andare contro il suo padre naturale - giusto giusto un sacerdote - e contro i supporti di Burt Lancaster, per illustrare il 'perfetto' spirito americano, lo spirito tipico dell'americano alla frontiera, assolutamente dispotico, immobile, incapace di evolvere eticamente. Il risultato è uno sguardo pessimistico che di rado si trova nel western classico (genere di cui il film è solo formalmente travestito), che vede sì gli indiani come barbari che negano famiglia e rassegnazione per gettare scompiglio fra gli invasori americani, ma che vede anche americani che muoiono come i cavalli per non essere utilizzati, violentati, torturati, che si ammazzano reciprocamente senza molti scrupoli per negare agli indiani le possibilità delle loro razzie, che si vogliono fare portatori di civiltà a suon di baionetta, di pistola e di fucile, incapaci di capire il perché di tanto odio nei loro confronti. Alla nobile fiamma di McIntosh, stendardo di una solidarietà umana non più possibile, perché solo ora il West sembra diventato Wild senza possibilità di rimedio, non resterà che fumarsi un'ultima sigaretta.

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