Regia di Roberto Girault vedi scheda film
Una massima del Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes offre la chiave di lettura a questo film: Los males que non tienen fuerza para acabar la vida no han de tenerla para acabar la paciencia. (I mali che non hanno la forza di por fine alla vita, non devono averla nemmeno per por fine alla pazienza.) Juan Arturez, detto Chano, porge il libro ad Edoardo, e lo prega di leggere quella frase ad alta voce. Juan ha compiuto settant’anni, Edoardo ne ha appena una ventina, ma entrambi sono studenti di letteratura all’università di Guanajuato, Messico. Ed insieme devono mettere in scena uno spettacolo teatrale ispirato al famoso romanzo spagnolo. In quel momento di spensieratezza, in cui l’uomo e il ragazzo si trovano seduti al tavolino di un bar, ciò che conta non è tanto il significato di quel particolare passo letterario, quanto la sua potenza espressiva, che gli attori dovranno rendere in maniera altrettanto efficace sul palcoscenico. L’invito rivolto a Edoardo ha uno scopo puramente esemplificativo: è una semplice introduzione pratica al pensiero che Chano esprimerà subito dopo: Le grandi opere sono piene di sapienza di vita, però per trovarla bisogna farla nostra, e per comprenderla, bisogna condividerla. Dirla, non soltanto leggerla. Spiegarla, non soltanto scriverla. Un suggerimento didattico sul corretto approccio alla filosofia, che vuole essere, allo stesso tempo, un consiglio per la recitazione, l’indicazione di una tecnica per impadronirsi del testo e calarsi nella parte. Edoardo e i suoi compagni andranno in giro per la città, ad illustrare i brani del romanzo alle persone incrociate per strada. Sarà quello l’inizio di un viaggio alla scoperta di un nuovo modo di comunicare: un percorso educativo sul giusto modo di dosare parole e silenzio, dichiarazioni esplicite e sfumate allusioni. E, soprattutto, sarà lo spunto per una riflessione su quanto, nei rapporti col prossimo, si pecchi di egocentrismo, imponendo la propria presenza, il proprio punto di vista, i propri desideri. Indossare una maschera e cercare di essere un altro, insegna a porre la propria persona in secondo piano, immedesimandosi in coloro che, per pigrizia od arroganza, si è troppo spesso portati ad assimilare a se stessi. In questo modo si impara anche a guardare dal di fuori, col distacco della finzione scenica, ma con la genuina curiosità dello spettatore, la propria esperienza e i propri errori. Uscire dalla morsa degli affanni per avvicinarsi alla propria vita dall’esterno, toccarla con mano e rigirarla attentamente tra le dita, per ammirarla da ogni angolazione, è un esercizio di delicatezza e pazienza, che educa alla riflessione e alla tolleranza. Il problema reale, per il giovane che sbaglia, non è l’incapacità di rimediare, bensì la paura di andare avanti, di dover affrontare l’incognita che si trova al di là dell’ostacolo. La vera sfida è trasformare i passi falsi, con le loro drammatiche conseguenze, in occasioni per cambiare, per crescere, per guarire; ed ammettere, con umiltà, di aver bisogno di aiuto. L’arrendevolezza è il primo passo che ci porta ad incontrare gli altri e a ritrovare noi stessi. Dirai alla incomparabile signora mia Dulcinea, che il cavaliere suo schiavo è morto per essersi accinto ad imprese che lo rendessero degno di chiamarsi suo prigioniere. Santiago, durante la prova generale, non riesce a pronunciare questa battuta con la dovuta intonazione. La sera stessa, Chano gli dirà: In fondo, credo che questo sia l’amore [...] è molto più facile di quanto si creda, però noi lo complichiamo. Pensiamo che l’amore sia accampare diritti. Ma l’amore, paradossalmente, si fonda sulla rinuncia. Pensiamo che amare ci autorizzi ad avere. Ci dimentichiamo che l’amore significa cedere. Donarsi.
Offrirsi con docilità alla persona amata, assecondare con modestia e compostezza la volontà del destino è la lezione di vita che Chano ed i suoi ragazzi finiranno per impartirsi a vicenda, sostenendosi ed impegnandosi a capirsi, a dispetto del salto generazionale. Gli anni dividono, ma il dolore colpisce tutti alla stessa maniera, e la differenza di età non conta quando, davanti alla morte e alla sofferenza, la cosa più importante è restare uniti. L’universalità del male chiama l’universalità del bene: una conclusione forse un po’ troppo retorica e altisonante, per una storia costruita intorno alla bizzarria di un vecchio e alle sventurate imprese di un gruppo di ventenni immaturi. C’è un po’ del Don Chisciotte, del cavaliere della triste figura, in tutti i personaggi di questo film: c’è la surreale goffaggine dell’uomo fuori dal tempo e c’è la tenera spavalderia del guerriero inesperto. E c’è, soprattutto, un’intensità basata su una squisita miscela di saggezza e ingenuità, che si esprime con voce incerta e tremante, eppure riesce subito a farsi poesia.
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