Regia di Alan Butterworth vedi scheda film
Una black comedy britannica che fa bonariamente il verso a Hitchcock, dissacrando la tensione del thriller con un micidiale miscuglio di paranoia ed isteria. Tutto, in questa storia, è semplice follia, il bene come il male, la virtù come il vizio, in un dramma, tra il semiserio e l’assurdo, in cui anche il caso dà il suo decisivo contributo. Nel caricaturale spaccato di un angolo della campagna inglese, l’intera attività del cosmo sembra ridotta a puro accanimento. Esasperati, in maniera surreale, sono gli elementi tipici della vita di paese, come lo zelo dei benpensanti, la prudenza dei fifoni, e la spavalderia dei furfanti, ma non solo: a reggere i fili del racconto è una forza superiore che non conosce mezze misure tra la fortuna e la iella, e una volta che ha imboccato una certa strada, non c’è modo di convincerla a tornare indietro. L’incorreggibilità dei personaggi è tutt’uno con la rigidità di un destino che ha preso inspiegabilmente di mira due fratelli dalle personalità opposte, i quali, alla morte del padre, si trovano a doversi accordare sull’utilizzo di una casa di campagna avuta in eredità. Il vero oggetto della discordia è, però, una borsa piena di soldi che i due uomini trovano al suo interno, e che si rivela ben presto la fonte di una mortale maledizione. Essi diventano così, loro malgrado, gli artefici di una congiura degli innocenti di coppia, tra cadaveri da nascondere come in Nodo alla gola, ricatti anonimi e indagini clandestine degne del più classico dei gialli. Lo spirito del film è una demenzialità gestita con intelligenza, che calibra gli eccessi sui caratteri dei personaggi, trasformando le loro rispettive inclinazioni in grottesche manie, senza però mai sconfinare nella farsa. All’iperbole si sostituisce un accento calcato sul realismo psicologico, che ne dilata i tempi e ne amplifica le espressioni, ma non per distorcerle, bensì per guardarle meglio. Il teatro della vicenda è una sorta di piccolo regno incantato: una fantastica boccia di vetro in cui è la mediocrità a coprirsi di magia, perché appare governata da una logica che, per quanto perversa, è prodigiosamente potente ed infallibile. Di questo gioco, diabolicamente perfetto nella dinamica, ma così così nella sostanza, fanno parte i concetti di famiglia, di amicizia, di solidarietà: i “valori” che, così sembra, fanno muovere il mondo anche e soprattutto quando sono malignamente travisati. The Drummond Will è un poesia al contrario, che, un po’ cinicamente, si diverte a rivoltare come un guanto la banalità: una messa a nudo della vita dei poveri diavoli, in cui la perfidia e la stupidità fanno sorridere solo per un attimo, per coprirsi subito dopo di una grigia e tiepida tristezza.
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