Regia di Denis Côté vedi scheda film
Dall’inverno canadese ci giunge una sferzata di gelo. Un vento polare che trasporta una storia che vorrebbe apparire irrisolta, mentre invece è solo inconclusa. Un giallo che non arriva nemmeno a ingarbugliarsi, fermandosi alla semplice enunciazione del mistero. Un dramma fatto di un padre, una figlia, un motel, una pista da bowling circondati dal vuoto: elementi paesaggistici che basterebbero a creare un tiepido acquerello della desolazione, se non fosse per quell’anomala intrusione del macabro. È come se l’atmosfera nordica alla Kaurismäki cercasse inutilmente di accostarsi a quella di Fargo, non accontentandosi del lirico squallore dell’incomunicabilità, della mancanza di prospettive, dei sogni imprigionati in una morsa di ghiaccio. L’autore sembra cercare una qualsiasi via di uscita dalla situazione di impasse a cui pareva voler rimanere fedele, per farne la dura sostanza di un racconto attaccato alla terra sterminata che fa sentire smarriti, al peso della neve che opprime i passi, all’aria pungente che morde la carne e raffredda gli istinti. Poteva proseguire il cammino lungo una strada fatta della paura di uscire e lasciarsi andare, della reticenza di chi teme il confronto col mondo esterno, di chi non crede nel futuro e per questo chiude le porte anche al presente. Invece decide inopinatamente di deviare, quasi che restare fermi non fosse un punto di partenza valido per fare letteratura. Voler, a tutti i costi, sfondare i confini senza però andare da nessuna parte è il miglior modo per scoprire la debolezza del proprio discorso, l’insicurezza che denota chi sospetta di non aver abbastanza da dire. Si può essere incisivi, poetici ed esaurienti anche parlando di solitudine, di silenzio, di deserto dell’anima; non c’è bisogno di fuggire, né di puntare verso un oltre che rischia di apparire, banalmente, come un termine di confronto inserito artificialmente per supportare il racconto con la forza del contrasto.
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