Regia di Renato Castellani vedi scheda film
Nella città l’inferno appartiene almeno a quattro persone o forse no. Appartiene a Renato Castellani, che si smarca dall’etichetta di regista sentimentale e dimostra la solita perizia anche in un prison movie apparentemente distante dalla sua natura: eppure anche qui c’è non soltanto un formalismo abbastanza evidente nella messinscena, in cui tutto è studiato e nulla è lasciato all’approssimazione, dall’inizio con gli echi della bolgia dantesca alla teatralizzazione finale, ma anche una forte consapevolezza dello spettacolo.
Appartiene a Suso Cecchi D’Amico, che l’ha scritto in solitudine col regista partendo dal romanzo Roma, Via delle Mantellate di Isa Mari, tratteggiando una galleria di ritratti femminili assolutamente mirabile, tra il grottesco di facce provenienti dalla realtà e il patetico della condizione umana, con un importantissimo lavoro di approfondimento psicologico. Appartiene a Giulietta Masina, che sosteneva di dover essere in origine la vera protagonista del film: e invece scompare nel fulcro della storia e riappare solo per dimostrare il fallimento della pena detentiva.
E forse più di tutti appartiene ad Anna Magnani, caso raro di diva senza pubblico (la Masina fu inserita per questione di cassetta) progressivamente emarginata dalla cinematografia nazionale, che non perde l’occasione di cannibalizzare il film con voracità animalesca e razionalità istintiva. Plateale l’antipatia nei confronti della Masina: quando la schiaffeggia capisci di cosa è capace una belva ferita, segnata, sfregiata dalla vita (la sua Egle), ma anche la sofferenza di un’attrice in crisi. Film difficile, complesso, maledetto (la versione che circola in tv non è soltanto priva di scena ma è anche un montaggio non conforme alla volontà dell’autore) in cui gli uomini sono relegati a camei o macchiette (grande numero di Alberto Sordi che non si fece pagare).
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