Regia di Enrico Lando vedi scheda film
Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio portano sul grande schermo i loro personaggi più famosi, idoli televisivi per i giovani e appassionati spettatori di MTV. L’operazione commerciale funziona, tanto da incassare 12 milioni di euro al botteghino. Ci si chiede allora perché la critica abbia stroncato questa pellicola con una ferocia che ha pochi precedenti. La ragione probabilmente sta nel fatto che “I soliti idioti” (figlio illegittimo del duo Mandelli-Biggio - attori, cosceneggiatori, cosoggettisti - ma il cui padre naturale è la gallina dalle uova d’oro Pietro Valsecchi), per genesi, stile e risvolti, ha creato una crepa insanabile tra pubblico e critica, più e ancor più duramente che in altri casi precedenti. A conti fatti è probabile che il fan televisivi, recatisi al cinema a vedere questa pellicola siano rimasti soddisfatti di assistere ad una puntata televisiva su schermo più grande e con durata maggiore. Ed è altrettanto probabile che, abituati al format, non si attendessero di più. Ma complice anche il battage pubblicitario che ha preceduto l’uscita della pellicola (con tanto di siparietto consumato nel pietoso silenzio della platea sanremese all’ultimo Festival della canzone italiana) è ancor più probabile che anche qualche novizio, qualcuno insomma a cui la frase “Dai Gianluca, cazzo!” non fosse familiare, si sia fatto trasportare in sala a vedere questo fenomeno mediatico dell’Italia di oggi. “L’Italia di oggi”: questo essere amorfo, oggetto di studi (ancora senza risultati) da parte dei maggiori sociologi mondiali, in cui il nesso causa-effetto tra avvento berlusconiano e imbarbarimento della cultura ha spesso perso la trebisonda.
È solo qui, in questa dimensione post-boldidesichiana, in cui esistono format televisivi che celebrano il trash che un film come “I soliti idioti” poteva ottenere incassi molto superiori a pellicole che hanno provato a fare una comicità intelligente! Hic et nunc. Fa specie dunque che critici navigati, per quanto asserviti al potere commercial-televisivo con cui portano la pagnotta a casa, quelli appassionati di (buon) cinema prima ancora che cinemaniaci, abbiano etichettato il film come “specchio della realtà quotidiana”. C’è poco di documentaristico difatti in un film fondato sul turpiloquio, in cui bauscia milanesi si fingono tolleranti verso la multirazzialità, nel quale un playboy ottuagenario, cialtrone e viscido, prova ad insegnare la sua versione di vita reale al figliolo ammantato di valori morali integerrimi e in cui una coppia gay male assortita esibisce ignoranza e nichilismo a gogò. Si tratta infatti di minoranze esecrabili, altro che “specchi fedeli di una realtà quotidiana”; da condannare in quanto degenerazioni estreme, lontane dal reale, non da esaltare come plastici vespiani di un’Italia che va verso il futuro… E, in quanto tali, da stigmatizzare, non certo da promuovere, specie per il loro (ulteriore) contributo alla trivializzazione delle masse. Se il suddetto duo avesse voluto condannare certi stereotipi contemporanei avrebbe usato strumenti più congeniali allo scopo. Il film non è dunque una critica di costume (dov’è la “critica” al comportamento dei personaggi?); non è certamente un film-denuncia (è palese che certi comportamenti non vengano stigmatizzati affatto); e non si tratta nemmeno di satira…
Rimane l’unica definizione possibile: operazione commerciale, senza capo né coda, realizzata da alcuni marpioni del settore per alzare quattrini con la pala, sfruttando la scia di un successo televisivo incomprensibile ma reale.
Ritornando alla trama, l’unico episodio, il meno volgare (ma crediamo sia solo un caso), che davvero rammenta la quotidianità - è sempre il suddetto esperto a scomodare paragoni imbarazzanti con “I mostri” (sacri) della pellicola firmata da Dino Risi - è quello del pony express alle prese con la burocrate fancazzista e per di più bacchettona.
Sul piano artistico, il film ha un montaggio indegno di tal nome ed una recitazione da canile municipale (figurarsi che la meravigliosa Madalina Ghenea, che di professione fa la modella, è quella che se la cava meno peggio). Alcune trovate sono da avanspettacolo (nella sua accezione negativa), i siparietti in stile Bollywood sono da taglio dei polsi perché concepiti come propaggini utili ad allungare il brodo (si deve pur arrivare all’ora e mezza di proiezione!)…
Per un po’ po’ di sceneggiatura simile ci sono volute 6 mani, quelle dei due protagonisti e di Martino Ferro. Ci volevano la bellezza di 3 cervelli per scrivere risoluzioni geniali come un improvviso terremoto per chiudere le numerose, e ormai ingovernabili, situazioni in atto? Erano necessari ben tre cervelli per inventarsi un malconcepito matrimonio per giustificare la presenza di personaggi slegati e senza punti di contatto tra loro? Certamente la frammentarietà, elemento già caratteristico di numerosi film comici italiani del passato, è un handicap relativo (di film, per esempio, che usano il tribunale come trait d’union tra le vicende il cinema comico degli anni ’70 e ’80 ne è zeppo!); eppure non per questo possiamo parlar di film pessimi. Sono piuttosto la banalizzazione della scrittura, o il soggetto inesistente (concepito a 4 encefali, con l’aggiunta del già citato Valsecchi) a decretare la completa inadeguatezza di questo pastrocchio, che raschia il fondo della decenza, portando il cinema ai suoi minimi storici. Sono più probabilmente il vuoto totale e l’assenza di acume dell’intera operazione ad irretire.
In definitiva questo fenomeno televisivo sarebbe dovuto rimanervi confinato. Ci si chiede infatti perché invadere il grande schermo dal momento che quello piccolo (non a caso termine sinonimo di “inferiore”, “angusto” e “gretto”) ne era diventato l’habitat ideale?
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