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Twilight Portrait

Regia di Angelina Nikonova vedi scheda film

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La recensione su Twilight Portrait

di OGM
8 stelle

L’umanità si divide in deboli e violenti. Marina, una giovane donna russa, dopo essere stata vittima di uno stupro, si ritrova ad essere il crocevia di tante storie di perdenti. Nell’opacità tipica del cinema sovietico, amore e odio si confondono sotto il peso dell’incomprensibile durezza del mondo. Tutto è uniformemente amaro, e l’allegria è solo un’illusione ipocrita, che celebra il nuovo benessere e la ritrovata libertà per dimenticare l’infelicità derivante dalla mancanza di valori veri. Nel segreto delle case, e non solo, covano gli spettri delle finzioni, che nascondono un male atavico, radicato nel degrado, e insensibile ai rivolgimenti politici. Un tempo c’era chi, dall’alto, parlava ma non guardava, lasciando che ognuno coltivasse a proprio modo la tristezza di non sapere nulla di se stesso. Quella cecità continua ancor oggi, non più dettata da un regime totalitario, ma lasciata indisturbata da una democrazia che non ha saputo coniugarsi con la moralizzazione. Il sopruso è una pratica che si manifesta ovunque, anche tra le file delle forze dell’ordine, dove c’è ancora chi, con la protezione dei superiori, violenta e uccide per divertimento. Marina, di mestiere, è un’assistente sociale, specializzata negli abusi sui minori. I bambini e ragazzi che sfilano davanti alla sua scrivania sono incarnazioni di un presente marcio che ha già voluto contagiare il futuro, minando l’integrità degli esseri viventi che ne costituiscono le fondamenta biologiche. Quella donna, che ha subito sulla propria pelle la più grave delle umiliazioni, partecipa a quel dramma con una rabbia che, d’un tratto, si sostituisce allo scetticismo ed al senso di impotenza. Ciò che le è accaduto ha avuto l’effetto di rimescolare le carte, palesando il caos nel quale tutti, in qualche misura, sono condannati a soffrire senza mai poterci vedere chiaro. I genitori non sanno più separare la verità dalla menzogna, né distinguere il bene dei figli dalle espressioni del loro superficiale e vile egoismo. Marina, per suo conto, infrangendo una volta per tutte il velo dell’apparenza, deciderà di tuffarsi a capofitto in quel disordine in cui nulla segue la logica, perché tutto esce dalla pancia, aggirando il cuore ed il cervello. La vera crisi è l’abbandono acritico ai colpi della sorte, è quella masochistica vertigine da cui ci piace farci risucchiare in un universo in macerie, con la delirante certezza di poterlo trasformare in uno scampolo di paradiso. Farsi guidare dall’istinto proprio nel momento in cui raggiunge il culmine dell’assurdità, è un’ebbrezza di dolore da cui ci si aspetta un’azione purificatrice. Marina si getta tra le braccia del suo violentatore, giurandogli di amarlo. Lo segue in un appartamento sporco, cadente e sovraffollato, in cui vivono anche il fratello con problemi psichici ed il nonno che, insieme all’udito, ha perso anche la lucidità. Un ex ufficiale dell’Armata Rossa è ridotto ad un relitto tenuto in vita dalla nostalgia per un’utopistica grandezza che se ne è andata per sempre, senza lasciare niente in eredità. Ciò che rimane è polvere senza forma e senza storia. Donne e bambini sono i primi a naufragarvi. Il potere centrale dello Stato, dissolvendosi, si è frammentato in tanti piccoli autoritarismi, che, senza nessun controllo, determinano i ruoli e le gerarchie all’interno delle famiglie, delle coppie, o nei rapporti tra le istituzioni e i cittadini. Marina, alla fine, permetterà al sistema di tirarla dentro, assuefacendola al diritto del più forte e all’aggressività dell’impulso. Il ritratto crepuscolare a cui si riferisce il titolo, che nel film è associato ad una particolare funzione di una macchina fotografica, è, in senso figurato, la descrizione di un’individualità sfumata nella nebbia dell’ambiguità: quell’irrequietezza che accompagna il disorientamento, quando la luce è poca, e non si sa se, prima o poi, risorgerà ancora il sole.

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