Regia di Susan Youssef vedi scheda film
Habibi vuol dire tesoro. È il nome con cui la donna si rivolge all’amato. Layla chiama così Qays, ma non può farlo ad alta voce. La loro relazione è osteggiata dalla famiglia di lei, che l’ha già promessa in moglie ad un giovane medico. Ai suoi genitori non piace proprio quel muratore, che vive in un campo profughi e fa il poeta. Senza contare che ha scritto il nome della loro figlia su tutti i muri del quartiere, dedicandole versi romantici che, a loro dire, ne hanno leso l’onore. Ancora una volta, la tradizione è contraria alla libertà. Ma una parte della colpa spetta ad un malinteso senso della religione, ed alle sanguinose guerre che ne derivano. I due ragazzi non possono essere felici anche perché vivono a Gaza, mentre il loro Paese è occupato da forze nemiche, segnato dall’oppressione e dalla piaga del terrorismo. Layla e Qays non vogliono averci nulla a che fare, eppure quei fenomeni insidiano la loro vita, e finiranno per comprometterne il destino. Per sottrarsi a quella minaccia non basta la ribellione interiore, che passa attraverso l’arte e la passione incondizionata. La realtà allunga le mani anche sui cuori semplici e puri: la questione è antica quanto l’uomo, ma si inventa via via nuove forme per manifestarsi in tutta la sua crudeltà, che si esprime soprattutto sul piano psicologico, scatenando dilemmi ed imponendo dolorose separazioni. Il dramma di Romeo e Giulietta sopravvive al passare del tempo, e sa rendersi estremamente attuale, intrecciandosi con le situazioni economiche e politiche, e riuscendo ad essere, in ogni epoca, uno specchio dei problemi sociali ed etici che ostacolano il rinnovamento dei costumi e l’evoluzione della mentalità corrente. Questo film pone l’ottusità e l’arretratezza sullo sfondo di una storia dall’anima leggera come l’afflato lirico di un mondo ideale, nel quale dedicarsi alla bellezza è un fatto naturale, magari sofferto, ma sempre limpido e disinteressato. Qays e Layla si amano senza un perché, e contro la logica della convenienza. Trasgrediscono alle regole e disobbediscono ai padri per fare l’unica cosa giusta, la sola scelta che, in mezzo ad ipocrisie e sotterfugi, rappresenta una spontaneità che risponde solo a se stessa, ed è del tutto priva di secondi fini. Questo dettaglio, stonato e forse anacronistico nell’era dei fanatismi strumentali e delle battaglie ideologiche, viene però dipinto con una delicatezza che si mantiene sapientemente lontana dalla sdolcinatura, in quanto protetta da un nobile contegno che deriva direttamente da una gestione onesta e moderata delle proprie emozioni. È così che la sensibilità si sublima in una squisita magia di sguardi complici e identità di intenti, capace di costruire silenziosamente l’antitesi al reboante caos dei conflitti in atto. Umano è il tormento delle anime in subbuglio, mentre è disumano lo strazio dei conflitti territoriali, che impongono limiti insostenibili e tracciano confini insensati. Il film di Susan Youssef ribadisce, con la grazia femminile del discorso a fior di labbra, la fragile assurdità di divisioni che si fanno avanti con le maniere forti, ma che non reggono il confronto con il potente sussurro del sentimento.
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