Regia di Pippo Delbono vedi scheda film
Forse bisognerebbe mostrare severità, insieme al rispetto. Severità di pubblico assopito, dormiente ma anche sveglio, iperstimolato. Delbono, noto autore e attore teatrale che diversi anni fa diede vita ad un interessante progetto di lavoro con attori disabili, non gira con Amore carne il suo primo lungometraggio. La sua opera ultima, girata con un cellulare come (scopriamo) altre, somiglia a ciò che si agita nei filmaker mancati, in quelli che avrebbero avuto molto da dire ma per vergogna, disorganizzazione, rabbia o semplice incapacità non ce l'hanno fatta. Le opere mai nate risorgono redivive, sanguinarie, con la realizzazione concreta di Delbono. Amore carne sembra plasmata dal non detto, dall'agitazione che trama in ognuno di noi. Una giustapposizione di imamgini ma anche delle tracce di percorso lineare, a inquadratura fissa, la delineano. All'inizio del film c'è la morte dell'amata "carne" danzante, Pina Baush, i fiori così invasivi a saturare il campo. Poi c'è la morte da comunicare: Delbono finge di essere un uomo che per la prima volta si sottopone al test HIV, e lo fa inquadrando il camice di una dottoressa e la sua mano che scrive, ma anche fornendo i dati di un altro sé. La sua sieropositività, già nota, è il pretesto per parlare delle sue ossessioni dolciastre, dei suoi totem, dei suoi luoghi. Ed è qui che la ripresa, spesso, si fa barcollante. Insegue attrici famose, coglie la quiete prima di terremoti sradicanti, si incanta in suggesitoni nordiche (tra le città e le stanze d'albergo, anche lande scandinave). L'amore stride con la povera e parca quotidianità dei discorsi materni, di una banalità magistralmente indagata ma, forse, non tematizzata. Poche situazioni, pochi dialoghi lasciano subito spazio alla voce over del regista, che rigetta una raggia genuina ma generica su musiche vibranti, rimbombando sull'immagine e facendosi presto "tesi". E' curioso constatare come l'estremo sperimentalismo di Delbono, qualche volta carmelobenesco, si invischi nella sgradevolezza programmatica di uno dei più classici stratagemmi del cinema narrativo. Parlando, urlando, decantando le sue urgenze, l'autore si fa oratore declamante di testi ridondanti e fragili, che affossano la potenza di (alcune) immagini. La ripetitività di testi e sequenze non segue le mode del lento di un cinema iper-riflessivo e accartocciato su se stesso, come tanta facile critica potrebbe affermare, ma è velocissima, sfiancante.Tritura la carne, la necessità fisica della bella immagine con le sue sostitute sgranate, ma anche l'amore, perso in rivoli evanescenti di sogno.
Pippo Delbono riflette sulla sua sieropositività e sul suo rapporto con essa: ci mostra le immagini di un finto colloquio preparatorio, la conversazione con sua madre, tutta presa da esigenze pratiche, la sua vita di girovago tra teatri e città diverse, mentre convive con un "male" non ancora esploso e si oppone alla brutale banalità dell'esistenza
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