Regia di Tusi Tamasese vedi scheda film
Per la prima volta, la Nuova Zelanda invia una propria produzione agli Academy Awards: e questo film è anche, in assoluto, il primo interamente samoano, nell’ambientazione geografica, nel contenuto culturale, nella lingua parlata. Secondo un’antica tradizione locale, l’oratore è una figura politica a tutto tondo, un capo, un portavoce, un avvocato, un negoziatore, che è incaricato, da una comunità, di rappresentarla pubblicamente, difendendone gli interessi in dispute che avvengono secondo un rituale ben preciso: esso prevede l’uso di particolari accessori (un bastone di legno intagliato ed un frustino con cui ci si batte le spalle in segno di saluto) ed include lo scambio di regali più o meno ricchi, a seconda dell’importanza della questione dibattuta e dell’autorità riconosciuta all’avversario. A questa carica si giunge tramite una cerimonia di investitura, in cui il segno del comando è rappresentato dall’ava, una bevanda a base di erbe, che viene miscelata in una noce di cocco essiccata. A Saili non è mai toccato questo onore: non è un tulafale, è un uomo semplice, un contadino che coltiva il taro, un arbusto alle cui foglie sono attribuite proprietà terapeutiche. Ce ne sono tante, di quelle piante, nel suo giardino. A volte, quando prova vergogna, ci si nasconde in mezzo. È facile, per lui, rendersi invisibile, perché è un nano. E per lo stesso motivo gli è altrettanto difficile farsi rispettare. Nella terra un tempo appartenuta a suo padre, in quell’appezzamento dove questi, adesso, giace sepolto accanto a sua moglie, qualcuno ha creato una piantagione di yam, incurante della presenza delle due tombe, che Saili cerca, invano, di mantenere pulite e sgombre. A lui tocca immancabilmente il ruolo del perdente: per guadagnare qualche soldo, fa il guardiano notturno di un supermercato, restando per ore seduto da solo sul marciapiede, accanto all’entrata. Inoltre ha sposato una forestiera, giunta nel suo villaggio perché bandita con disonore dalla propria famiglia, in quanto nubile e incinta. Intorno a questo omino, pacifico ma tenace, ruota un mondo dalla superficie apparentemente tranquilla, però profondamente ingiusto e violento, in cui ognuno è ferocemente geloso dei propri averi: questi spaziano dai metri quadrati coltivabili alla macchina nuova, passando per le persone “amate”, che vengono trattate con possessività. Tutto può diventare oggetto di contesa: un marito infedele o la salma di un congiunto. E Saili, di fronte a ciò, è totalmente disarmato, non disponendo né di prestanza fisica né di alcun potere contrattuale. Non può far nulla mentre i sepolcri dei suoi genitori vengono oltraggiati, nulla mentre la moglie Vaaiga si ammala, rifiuta le cure e poi muore, nulla mentre la figliastra Litia, che va ancora a scuola, concepisce un bambino con un uomo sposato. Una sera, mentre è al lavoro, gli tirano addosso delle pietre, ferendolo alla testa e danneggiando la vetrina del negozio che doveva sorvegliare. In seguito a questo incidente, Saili viene immediatamente licenziato. Non siamo abituati ad assistere a tanta desolante infelicità, in un paradiso tropicale nel quale la natura è ricca ed incontaminata, ed i ritmi di vita sono rimasti immuni dalla frenesia della civiltà industriale. In quelle isole dei mari del sud, i pavimenti delle abitazioni sono ancora coperti di stuoie grezze, realizzate a mano intrecciando foglie di palma. In casa si cammina scalzi e ci siede per terra, tenendo le gambe incrociate. L’ambiente sembra dominato da una sobria e primitiva compostezza, tale da evocare l’immagine di una primordiale armonia. I dialoghi sono morbidamente cadenzati, senza acuti, accelerazioni o picchi di emotività. Eppure, anche in quell’atmosfera di pace, il dolore si fa strada a grandi passi, soprattutto nei cuori dei più deboli. The Orator, sceneggiato e diretto dall’esordiente Tusi Tamasese, è un lamento sussurrato, scritto tra le righe di un idillio esotico, nel quale la presenza umana è l’austera e statuaria portatrice del peso della sofferenza. La componente etnologica, lungi dall’essere un elemento decorativo, contribuisce in maniera decisiva alla trasformazione dell’individuo in un monumento del dolore, solido ed inamovibile quando offende, quando subisce, quando cerca vendetta o quando – come nella pratica penitenziale dell’ifoga - attende pazientemente il perdono. Questo film, come il suo protagonista, è apparentemente piccolo, però interiormente robusto, e finisce per rivelarsi, ai nostri occhi, inaspettatamente grande. Vi riesce senza far leva sullo stupore, bensì convincendoci, poco a poco, con la forza dei suoi contorni netti e precisi, stagliati sul fondo bianco di una pagina vergine di Storia, ma pregna di una Verità senza tempo. .
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