Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
Le 4:44 è l'orario previsto per la fine del mondo: la gigantesca luce del Sole, non trovando più l'ostacolo di un'ozonosfera gradualmente dissolta, distruggerà il nostro pianeta con una grande luce. Dio? Il Nulla? Cosa verrà dopo? Che valore hanno le nostre vite? I nostri copri, le nostre anime? I dubbi degli esseri umani, com'è lecito che sia, sono rivolti tutti a questi quesiti, ma non basta questo ad Abel Ferrara per tracciare i contorni indefiniti dell'Umanità.
La certezza del dubbio, comunque la vogliamo chiamare, è il freno a mano che rallenta inesorabilmente il fascino (figurativo) di 4:44 - Last Day on Earth. Si tratta di quell'elemento respingente che abbassa l'interesse e frena le emozioni, raggelando la riflessione e bloccandola a ciò che è più noto e conosciuto. Sostanzialmente: non abbiamo bisogno della fine "ferrariana" del mondo per capire l'uomo, tra amplessi carnali e tensioni metafisiche. Si potrebbe facilmente rispondere dicendo "siamo già tutti morti, la fine del mondo segue una fine già iniziata", ma non è la Banalità umana quella che Ferrara vuole inquadrare in questo suo sforzo cinematografico che riesce, d'altra parte, a coinvolgere (in maniera puramente narrativa) nonostante quasi nulla accada di fronte agli occhi dello spettatore. Non c'è spettacolo, in questa fine del mondo: c'è paura, ansia, rassegnazione, curiosità, tedio, una rassegna quasi definitiva dell'emozione umana; c'è intimismo, profondo intimismo, e un grande desiderio (in parte negato) di spiritualità. In questa fine del mondo non viene al pettine nessun nodo, perché l'indefinitezza della nostra fallace esistenza è già chiara davanti agli occhi di tutti. Non servirà a nulla l'esibizionismo dell'universo e del cielo, che alla fine del film e a un attimo dall'Apocalisse mostrerà misteriosi raggi verdi quasi come corto circuiti nell'intero creato. Ferrara celebra il risaputo, la mancanza di novità che presuppone tanta conclamata Fine del mondo.
Dunque si lascia andare alle piccole curiosità che, tra le altre cose, il Web può svelare. Le credenze filosofiche orientaleggianti sul carattere illusorio del creato; la funzione della materialità nell'esistenza quotidiana; gli studi scientifici sul terribile disgregamento dell'equilibrio planetario: tutto dentro un microcosmo, un loft in piena New York, che chiaramente diventa sineddoche di un'intera Umanità che reagisce nella maniera più diversa alla Morte che sopraggiunge. Internet consente di mantenere i contatti con il resto della Terra: sarà l'occasione, per il fattorino vietnamita che porta il cibo a casa di Cisco (Willem Dafoe) e Skye (Shanyn Leigh), di contattare i suoi parenti in Vietnam. Skype permette di mantenere i legami familiari e anche i disastri familiari, a partire dall'ex di Cisco che prima gli fa venire i sensi di colpa e poi se la ride di fronte alla reazione inconsulta di Skye. Skype è un piccolo luogo di rifugio per Skye (curioso gioco di parole, tutti questi riferimenti forse involontari al cielo poi...), che contatta la madre e capisce di poter credere alla buona riuscita della sua vita, dedicata all'Arte. Cisco fugge per andare a incontrare dei suoi vecchi amici, ed è l'occasione per decidere se essere più o meno strafatti al momento della Grande Luce. Nessuna spasmodica attesa, nessuna grande angoscia: la Morte già regna in mezzo a noi.
E' forse per questo che in 4:44 Last Day on Earth non sentiamo niente di umano? Lo vediamo, lo apprezziamo, tramite la cura registica di Ferrara (realmente esaltante e pregiata), ma non lo sentiamo minimamente. E ancora: che l'intenzione sia di mostrare l'inerzia umana, un nulla esistenziale? Improbabile, i riferimenti cristologici e in generale metafisici a ciò che è ultraterreno, oltre che ai danni ecologici che l'uomo ha generato, riflettono l'intento, da parte del regista italoamericano, di trasmettere quel residuo di umanità che ancora serpeggia negli animi dei due protagonisti. Dovremmo almeno sentire la forza attrattiva che li lega, i dilemmi che li affliggono nel pensare alla loro vita, la rabbia, le piccole gioie, gli stessi orgasmi mai mostrati ma evocati da gemiti e lucidi incarnati chiaroscurali, dovremmo sentire tante cose. Ferrara disattende però questo piccolo grande punto, e considerate le ultime battute e i dubbi lancinanti che vediamo espressi di fronte ai nostri occhi (gli stessi timori per la strada, fra chi urla di non voler morire e chi chiede aiuto in maniera fin troppo invadente) non avremmo dovuto affrontare questa fine del mondo così rassegnati e in fondo sereni, non sfiorati, cinici. Rincorrere volontariamente la freddezza in questo mo(n)do è troppo facile: cosa manca a questa "impeccabile" (e diciamolo, stilisticamente anche troppo perfetta, addirittura ripulita) prova di Abel Ferrara?
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