Regia di Philippe Lioret vedi scheda film
La prima cosa che mi viene in mente per riuscire a commentare degnamente questo bel film è la relazione tra il suo titolo e il titolo del libro dal quale è stato ricavato: “Vite che non sono le mie”. C’è un passaggio, nel corso di una udienza processuale, in cui l’avvocato della controparte (ossia la pseudo-banca, alla quale ahimè tanto somigliano le “banche-banche”) vorrebbe che fosse addebitata a Celine la colpa di “voler soddisfare tutti i propri desideri”, da cui (oltre al titolo del film) l’eccessivo indebitamento cui la poverina non riesce a far fronte. Essendo però già stato chiarito allo spettatore quali siano il reale tenore e stile di vita della giovane donna e dei suoi due figli, non si capisce poi tanto bene di quali desideri stia parlando l’avvocato, un po’ come succede per quella intangibile “pacchia” che sarebbe finalmente finita per questo, per quello e per quell’altro ancora a detta di un noto Ministro della nostra Repubblica attualmente in carica.
D’altra parte, il film si apre con la breve scena dei due piccoli figli della magistrata (non capisco perché l’editor di testo del pc mi sottolinei in rosso, cioè come errore, il termine “magistrata” visto che un magistrato donna si dovrebbe definire proprio così – n.d.r.) che desiderano un cagnolino; e la medesima magistrata tace con chiunque della propria malattia perché desidera non allarmare i propri cari, mentre il “magistrato grande” (di età e spessore attoriale) desidera in cuor suo l’impossibile amore della collega senza però mai dirglielo per non turbare l’equilibrio dell’esistenza di costei; e la giovane inadempiente Celine desidera un lavoro-come-si-deve (leggasi “pacchia”) non solo per i suoi figli, ma anche per i figli della magistrata nei confronti dei quali non si risparmia, ricambiando senza calcoli la generosità con la quale lei stessa e la sua causa vengono accolti in terra tutto sommato straniera.
“Vite che non sono le mie” sono tutte quelle per le quali vale la pena non di morire, ma di vivere: un po’ come quella del cagnolino che i nuovi quattro fratellini si contenderanno nel finale e che contiene l’anima di una vita che si è spezzata troppo presto; o la vita che respira in quella statuetta tribale che raffigura “La Giustizia”, regalo di un amore responsabile e impossibile, e che siede magra, simmetricamente accovacciata, ritirata in se stessa, come a dire che la Potenza che porta è tanto tremenda quanto vana se non tiene conto della vita e dei legittimi desideri nostri, cioè degli altri.
Un film così buonista che non piacerebbe mai a nessuno dei ministri tutt’ora in carica, né temo a tutti quelli che verranno anche dopo di quelli.
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