Regia di Miguel Cohan vedi scheda film
Senza ritorno è la situazione del giovane Matias Fustiniano che, da un momento all’altro, un sabato sera, è diventato un pirata della strada. Il salto nella criminalità non avviene, a dire il vero, nell’istante in cui, senza volere, travolge un ragazzo fermo in mezzo alla strada accanto alla sua bicicletta rotta. E non è neanche la sua morte, dopo giorni di agonia, a trasformare il responsabile dell’incidente in un omicida. A cambiare la vita di Matias, consegnandola alla prigione del rimorso e della clandestinità, è la sua decisione di nascondere il fatto, simulando un furto, persistendo nella finzione, e non recedendo nemmeno di fronte alla condanna di un innocente. Il film di Miguel Cohan non conosce l’arte del discorso intimistico, della metafora letteraria, perché affida il racconto della crisi morale interamente ad una minuziosa narrazione degli eventi, supportata da un realismo psicologico che descrive le reazioni individuali e le dinamiche interpersonali senza mai inutilmente cadere nel pathos o ricorrere all’espediente del monologo teatrale. L’obiettivo è puntato su Matias e sulla sua famiglia, che diviene la dimensione allargata del misfatto, nel momento in cui si rende complice del ragazzo, facendo del suo iniziale sotterfugio l’elemento di una vera e propria cospirazione. Il dolore del padre della vittima rimane, in sottofondo, a fare da muto e lontano contraltare al tormentato attivismo dei partecipanti al complotto, che appare costantemente teso tra la volontà di adoperarsi a difesa del figlio e la necessità di tacere e continuare la propria vita normale. Il desiderio di dimenticare e fare finta di nulla deve fare i conti con la verità che preme per emergere, affacciandosi continuamente tra le pareti domestiche, nella persona dell’incaricato della compagnia di assicurazioni che bussa alla porta per porre domande sempre più pressanti, e sotto forma dei resoconti delle indagini trasmessi dalla televisione. Ciononostante, il racconto è talmente calato nell’ambiente della classe media che lo spettatore, standoci dentro, ha la sensazione che tutto sia per bene e a fin di bene, giustificato dal dovere di tutelare quel povero Matias che, suo malgrado, e senza colpa, si trova invischiato in un guaio. L’illusione regge fino a che lo sguardo non si sposta fuori da quel milieu privilegiato, per mettere a fuoco le persone su cui quell’atteggiamento si ripercuote tragicamente, primo fra tutti quell’uomo finito ingiustamente in carcere. È a questo punto che si intravede la sottile polemica sociale che, impercettibilmente, attraversa la prospettiva di Miguel Cohan: i genitori di Matias, entrambi liberi professionisti, nella loro operazione di salvataggio si avvalgono delle risorse tipiche del loro ceto: le conoscenze altolocate, la possibilità di corrompere, la disponibilità di mezzi per scappare. All’esterno di questo mondo esclusivo e protetto si trovano, del tutto disarmati, gli appartenenti al disgraziato rango degli artisti: Pablo Marchetti, tatuatore e disegnatore di fumetti, morto per investimento, e Federico Samaniego, ventriloquo, arrestato per errore, e destinato a perdere quel poco di popolarità che, per lui, era la sostanza di cui vivere. Sin retorno è una storia di dolore, che, nello stesso tempo, traccia il percorso del destino nella società moderna: un itinerario determinato dal caso, ma condizionato, in maniera decisiva, dalla distribuzione del potere e della fortuna materiale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta