Regia di Josef Von Sternberg vedi scheda film
CONTIENE PARECCHIE ANTICIPAZIONI E UNA BREVE PREMESSA AUTOBIOGRAFICA TRA PARENTESI: chi vuole può facilmente evitarla, leggendo solo l’opinione.
[Nel corso della vita cinefila di ogni spettatore - lunga o breve che sia (non è una mera questione anagrafica) - capita talvolta d’imbattersi in film che entrano inesorabilmente sotto pelle, passando attraverso gli occhi e sollecitando l’udito, fino ad insinuarsi nella mente in maniera indelebile; succede anche che realtà quotidiana e finzione scenica s’incontrino quasi per caso, provocando un suggestivo cortocircuito tra la propria esistenza e quella filmica. La sensazione che si prova, quindi, è di trovarsi al posto giusto e nel momento giusto: in una sorta di magica e irripetibile atmosfera, frutto di chissà quali coincidenze astrali, che ci predispongono ad un’epifania decisiva per la nostra esistenza. Questa è la cronaca della mia prima, vera e importante folgorazione cinematografica. Primavera 1998, primo anno di liceo: dopo un’ennesima giornata trascorsa a scuola, tra le solite ore di studio più o meno intense e le spesso inutili chiacchiere dei compagni, mi appresto a tornare a casa, rimuginando sulle nozioni scolastiche e anche sulla mia incapacità sociale; dopo tre anni di scuola media superiore, non sono ancora riuscito ad inserirmi nella classe: sto sempre solo, chiuso in me stesso. La mattina appena arrivo mi precipito in aula, non per essere il primo ad entrare ma soltanto per sfuggire gli sguardi dei compagni di cui temo il giudizio, ritenendomi inadatto a loro. Anche a ricreazione e all’uscita non riesco a trovare il modo di sbloccarmi dalla mia disastrosa mancanza di fiducia in me stesso e negli altri. Mi chiedo per quanto tempo ancora riuscirò a resistere. Giunto dunque a casa con questo tossico stato d’animo, consumo il pranzo. Prima di cominciare a svolgere i compiti per l’indomani, sono solito guardare un film in TV: spesso li trovo già iniziati, oppure stanno per terminare, altre volte ancora non ci sono pellicole che in quel momento mi interessa seguire (magari perché intuisco che durano troppo, e lo studio per me veniva prima di ogni possibile visione filmica). Mentre col telecomando cerco, mi imbatto casualmente nei titoli di testa di un film che non conosco: L’ANGELO AZZURRO.]
Tratto dal romanzo Professor Unrat oder Das Ende eines Tyrannen (1905) di Heinrich Mann,fratello del ben più famoso e geniale Thomas, la pellicola racconta la parabola di lenta e progressiva degradazione umana e professionale di un docente di liceo, Immanuel Rath, nome quanto mai allusivo (come non pensare al celebre filosofo di Königsberg): uomo dal comportamento irreprensibile, l’insegnante non vive che per il suo lavoro, svolto con un senso di abnegazione tale da meritarsi - a causa della sua severità - un soprannome tra il faceto e lo spregiativo: i suoi alunni, infatti, lo chiamano professor Unrat, cioè spazzatura.
Egli dunque conduce la sua monotona esistenza in modo moralmente ineccepibile, finché viene a sapere delle cattive frequentazioni dei suoi scolari: spinto da un intento pedagogico che a tratti assume quasi valenza missionaria, il professore decide di redimere il suo gregge studentesco; per far ciò, si trova costretto a scendere nel girone dei lussuriosi. Ed è così che, dalla dimensione scolastica - habitat naturale del docente, in cui le naturali pulsioni verso la scoperta dell’eros vengono mortificate (esemplare a tal proposito la scena in cui durante una lezione in classe viene sequestrata un’erotica figurina, simile a quei piccoli calendari che - allora proibitissimi, oggi soltanto risibili - alcuni barbieri erano soliti regalare ai clienti: mio nonno me ne ha mostrato uno come “reperto storico”) - il professore entra in un ambiente a lui del tutto nuovo e sconosciuto, il teatro-cabaret, dove fa la conoscenza dell’oggetto del desiderio dei suoi alunni: la donna della cartolina circolata di nascosto tra i banchi, Lola-Lola. Archetipo dell’eterno femminino, simbolo del piacere proibito ancorché negato, personificazione di una moderna Eva: c’è tutto questo dietro il suo nome, ripetizione bisillabica che prelude al concupiscibile appetito di cui resta subito vittima l’illustre docente. Ballerina e cantante, durante le esibizioni nel locale notturno “L’Angelo Azzurro” dichiara la sua natura, cantando una famosa canzone di Friedrich Hollaender che suona come un vero e proprio manifesto: “Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt” (“Da capo a piedi sono orientata all’amore”).
L’incontro risulta fatale. Complici gli studenti, abituali frequentatori del music-hall, nonché lo stesso direttore, l’insegnante entra in una spirale di progressiva degenerazione sociale e professionale. Soggiogato dall’irresistibile fascino della donna, Rath lascia la cattedra per sposare Lola-Lola; ma dopo l’ebbrezza provata per la novità della situazione, cominciano ad emergere le abissali distanze di vedute e comportamentali tra l’ex docente e l’artista di varietà. La disciplina del professore mal si concilia alla spregiudicatezza dell’ambiente artistico: secondo i parametri della struttura sociale a piramide in cui crede ed è cresciuto l’insegnante, la condotta di Lola-Lola è a dir poco deprecabile; eppure, nonostante il razionalismo di cui è pregno, il docente non riesce a liberarsi dai lacci di amor carnale che lo costringono ad una continua umiliazione.
Ben presto egli si ritrova in ristrettezze economiche dopo aver dilapidato il suo patrimonio nel vano tentativo di inseguire la chimera di un amore impossibile, e per poter continuare a star vicino a Lola-Lola - ormai diventata per lui una vera e propria ossessione - compie l’ultimo e definitivo passo verso il suo inevitabile annientamento sociale: come estrema prova di una tossica passione, accetta persino di impersonare la parte di un clown nella compagnia di artisti girovaghi, diventando così lo zimbello di sé stesso, deriso persino dai suoi stessi concittadini, venuti a vedere l’osceno spettacolo di un uomo integerrimo ridotto quasi alla stregua di un fenomeno da baraccone.
Di certo Lola-Lola non è una moglie di stampo tradizionale, e anziché prendersi cura del marito non perde occasione per mostrare interesse verso un nuovo maschio, bello giovane e vigoroso: colta in flagranza adulterina, egli dapprima tenta di strangolare la moglie senza riuscirvi, in quanto viene bloccato con una camicia di forza. Ma, una volta libero, il professore si precipita verso la scuola dove un tempo prestava servizio: lì, con l’unico conforto della sua amata cattedra - a cui si aggrappa disperatamente con le ultime forze rimastegli - muore solo e abbandonato come una bestia ferita, vittima proprio di quella forza devastante dell’amor profano che tentava di estirpare dai giovani virgulti suoi discepoli.
Primo dei sette film girati dalla coppia von Sternberg-Dietrich, nonché una delle prime pellicole parlate del cinema tedesco, ci troviamo di fronte a un vero capolavoro: l’incipit del sodalizio artistico tra un genio della macchina da presa (che da pigmalione plasma la sua diva) e la sua musa, entra di diritto nell’immaginario collettivo.
L’applicazione delle regole del Kammerspiel genera un quadro d’insieme di sorprendente finezza psicologica.
Da questo film in poi, inizia la sua ascesa di diva del cinema. Le morbide e peccaminose gambe, insieme a una voce sensuale, la rendono assolutamente irresistibile. Sotto la supervisione del regista, Marlene diventa il sogno proibito di ogni uomo, dimostrando anche e soprattutto di essere una grande attrice.
L’interprete del professore offre una efficacissima perfomance attoriale divenuta giustamente celebre, e direi quasi leggendaria. Indimenticabile lo straziante canto del gallo, urlo di dolore lanciato in scena come ennesima e suprema mortificazione del suo status borghese ormai inesorabilmente decaduto sotto ogni punto di vista.
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