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Io sono. Storie di schiavitù

Regia di Barbara Cupisti vedi scheda film

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La recensione su Io sono. Storie di schiavitù

di Spaggy
8 stelle

Parole che si dispiegano in un susseguirsi di rabbia che esplode dopo aver tenuto gli occhi aperti su un presente lasciato marcire a lungo nel silenzio. Fitte che inesorabili attraversano l’anima e spingono a una riflessione sull’uguaglianza degli uomini, lontano dai discorsi mille volte accennati e mai approfonditi. Colore di pelle, religioni e paura che si dissolvono di fronte all’orrore di vite sottovalutate e mai considerate come tali.
 


Io sono.
 


Cosa sono? Lo sguardo umido di un adolescente egiziano che taglia in due lo schermo e racconta di come a soli quattordici anni si scappi dalla povertà per esser d’aiuto al padre contadino. Il desiderio di normalità di un uomo iraniano stanco di vivere a bordo di una nave in disuso dopo aver vagato per mezzo mondo ed esser stato cacciato come portatore di peste terroristica. La difficoltà di ottenere un permesso di soggiorno e la parola “domani” che, anziché dar fiducia, diventa incubo ricorrente qualora pronunciata da un burocrate di un sistema alla deriva. Un paio di seni che anziché restituire un corpo che da sempre imprigiona diventano nuova costrizione. La corruzione di agenti di polizia che per 400 euro decidono chi è libero oppure meno. Gli psicofarmaci che addormentano corpi mentre altri non dormono mai.
 


Chi sono? Hanno voce come noi, parlano, pregano e piangono. Piangono per aver abbandonato e perso gli affetti più cari. Piangono perché hanno ottenuto la loro carta d’identità italiana. Piangono per essere costrette a vendere il proprio corpo a un cliente interessato solo a un attimo di estasi eiaculatoria. Piangono le stesse lacrime di chi a inizio Novecento con valigie di cartone e scarpe senza suole lasciava l’Italia e raggiungeva il Canada o l’Australia, come ricorda un iracheno. Piangono per avere come tetto uno zaino che contiene un dentifricio, un deodorante e un paio di mutande. Piangono perché l’orrore, la tratta e il genocidio sono taciuti e inabissati. Piangono perché civiltà non vuol dire lavorare per 12/14 ore al giorno per 20 euro. Strozzano il groppo in gola perché Italia non significa restituire 14 mila euro a una madame che ti ricatta con il voodoo e le ritorsioni sui familiari.
 
 


Immigrati nel corpo che si confrontano con emigrati dell’anima. Non si documenta, si ascolta e inorridisce. Denuncia. Il termine documentario sta stretto a un prodotto in cui l’attenzione della regista è guidata solo dall’anima in un percorso spazio-temporale che spiazza per la costruzione delle immagini e delle parole.
 
 
Qualcuno replicherà che è di moda parlar di immigrazione, raccontare di carrette del mare che affondano e di sopravvissuti che arrivano a rinfilzare i problemi di un Paese già in crisi. Siamo avvezzi alle immagini dei telegiornali, ai soccorsi apportati e alle parole dei funzionari dell’ordine. Centro di prima accoglienza è la parola d’ordine più in voga, centro di temporanea permanenza quella più abusata. Ditemi come può definirsi accoglienza il trattamento riservato agli ospiti costretti a vivere tra immondizia, escrementi e strutture fatiscenti? Come può definirsi temporanea permanenza l’abitudine malsana di uno Stato che ti costringe a far ritorno a Crotone dopo sei mesi per il rinnovo di un permesso di soggiorno e lì ti blocca per il resto dei tuoi giorni? Come può definirsi moderno uno Stato che non vede una nave abbandonata in un porto che diventa albergo di disperati che a turno si passano lo stesso materasso lercio per dormire?
 
 
Le vicende raccontate diventano un pugno nello stomaco per la scelta della Cupisti di non porre domande ma semplicemente di ascoltare e fissare tutto con le immagini mai invasive. Si osservano da vicino i volti, si vivisezionano le parole con accostamenti visivi ricercati, soprattutto durante la prima storia mostrata, in cui il racconto è inframmezzato dalle immagini del mare di notte, nero e agitato, come a voler simboleggiare la paura e l’ombra della morte che pervade gli animi.
 


Cosa pensi quando sei in alto mare, in 40 su un’imbarcazione che a malapena sarebbe adatta ad ospitare 5 persone? Cos’è in quel momento l’aldilà? Quale Dio ha scelto quel percorso? Che nome ha?
 
 
Crotone, Napoli e Roma. Gironi danteschi. Le riprese fatte con un telefonino introdotto furtivamente al centro Sant’Anna restituiscono una verità che non si vorrebbe testimoniare, squarciano un velo d’omertà e gridano aiuto. Come siamo capaci di tanta indifferenza? Perché l’uomo nero è tale anche se non si tratta di una ninna nanna? Perché dormono a terra per le stazioni? Perché quella trans di Centocelle vive in una specie di comune ricreata sotto una tenda in un campo incoltivato? Come si viaggia per tre giorni dentro la cella frigorifera di un camion? Dove trovano i soldi per affrontare il viaggio?
 
 
Niente grandangoli e musiche studiate per creare pathos. Un grande cappello di paglia copre il viso di chi non può esporsi, una treccina diventa simbolica degli intrecci di una vita, un cartellone pubblicitario che recita “ti amo” accanto ad una trans in strada suona beffardo e ironico, un caffè offerto da una mediatrice culturale – anche lei prostituta per anni – è l’unico gesto di inconsapevole umanità. L’eco di un vecchio tango risuona su una nave. Non è il Titanic o l’Andrea Doria ma con queste condivide la disperazione di un lento inabissamento con un ballo che dovrebbe scuotere per presa di coscienza.
 


Quanti erano quella notte quelli caduti in mare? 10, 20, 30? Un numero. Fredda statistica.
 
 
Il montaggio procede spostandosi di città in città per associazione. Il percorso scelto restringe il campo per passare dal generale al particolare. Da Sant’Anna a Centocelle, dalla massa all’individuo. Dal globale al globalizzato. Unico assente: lo Stato. La musica entra nella pelle, diventa contaminata e integra culture diverse come simbolo di un sogno che forse mai si avvererà. Profezia di Pasolini scorre senza parole o senza cenni, si intuisce pian piano, niente scritte in sovraimpressione se non sottotitoli quando diventa difficile capire un italiano che italiano non è. Niente dati ma solo anime in pena, senza differenza di pelle. Mani, bocche e corpi: la parte per il tutto. Sineddoche asciutta e senza orpelli. Immagini naturali e nitide, accostamenti mai figurativi e solo descrittivi. Un unico difetto: 61 minuti di attenzione sono pochi.

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