Regia di Michele Placido vedi scheda film
Fa un po’ specie vedere un film girato in Francia con attori francesi i cui personaggi portano cognomi italiani. E’ un po’ quello che succede in Diabolik, dove per non rinunciare alla matrice italiana del fumetto e nel contempo donargli un’aura esterofila, i nomi sono nostrani ma i cognomi dei personaggi sono tutti , o suonano tutti come stranieri. E’ cultura la nostra, quella del cinema di genere anni ‘70 che in Italia non si filava nessuno poiché italiano e quindi ogni attore e regista si traduceva – letteralmente - il nome in modo che suonasse di matrice anglofona. Antonio Margheriti è l’esempio più eclatante avendo fatto la maggior parte dei suoi film con il nome tradotto in Anthony Dawson.
Placido si prende una rivincita e italianizza i nomi dei suoi personaggi, chissà come la prenderanno i francesi che gli andiamo a fare i polar in casa.
A parte gli scherzi, Il Cecchino diretto da Michele Placido in trasferta francese, su sceneggiatura di Denis Brusseaux e Cédric Melon, è un solido film di genere. Ancora di più rispetto ai suoi precedenti, notevoli, lavori che si rifacevano comunque a uno storico trascorso criminale quasi biografico dei suoi personaggi, Romanzo Criminale (2005) e Vallanzasca – gli angeli del male (2010).
Un gruppo di rapinatori viene identificato dal capitano Mattei (Daniel Auteuil) che organizza un’imboscata per fermarli nel corso di una rapina. Purtroppo a proteggere la banda c’è un cecchino appostato sui tetti adiacenti che fa piazza pulita dei poliziotti e permette la fuga dei rapinatori. Una telefonata poi tradisce il cecchino che viene catturato e inizia un braccio di ferro tra il commissario e l’algido malvivente Vincent Kaminski (Mathieu Kassovitz) per scoprire tutto il marcio che sta dietro la vita criminale della banda di malviventi.
Come tutti i polar che si rispettino, soprattutto quelli contemporanei , l’atmosfera è plumbea, la fotografia virata in un grigio cenere che già sottintende a qualcosa i innominabile e cupo che cova e arde silenziosa in attesa di essere rimestata e ricevere ossigeno per divampare. I dialoghi essenziali annodano una trama impostata su più livelli, torbida e annaspante negli inganni, nei tradimenti, nei colpi di scena che fanno sprofondare la vicenda nelle più cupe segrete dell’animo umano.
Placido è grande nelle scene d’azione, nel tenere la tensione sempre al limite, forse sconta qualcosa in termini di ritmo quando deve far collimare tutte le sotto trame verso un punto comune, finale. Ma è un piccolo difetto di un film sostanzialmente molto buono.
Cinema viscerale, senza nessun aggancio alla contemporaneità nei fatti descritti, piuttosto un’astrazione della violenza che si serve dei personaggi come pedine per impostare un gioco al massacro che non risparmia nessuno.
I buoni e i cattivi si confondono tra loro. Dalla disillusione triste dello stropicciato poliziotto iconizzato in centinaia di polizieschi formanti la mitologia del genere, alla morale distorta dell’antagonista, sullo schermo il cattivo, ma dotato di un senso del giusto più radicato che negli stessi appartenenti alla fazione dei buoni, difensori di valori fasulli sbandierati a mo’ di distintivo solo per ratificare un’apparente appartenenza ad una fazione. Due facce della stessa medaglia, nessun bianco e nero ma scale di grigio che incorniciano l’ambiguità viscida di tutti i personaggi.
Il polar non indugia su sotto testi filosofici, non parla dei grandi temi della vita ma li sottintende.
E’ un racconto di strada, di sparatorie e morti assurde. Tradimenti e onore. Vendetta e squarci di luce sulla verità obliata dalla disperazione della solitudine.
Cavalieri solitari in un mondo di ombre, Mathieu Kassovitz e Daniel Auteuil assassino il primo e poliziotto il secondo, annaspano in un mondo torbido, rimestato dal dottor Frank, un grande Olivier Gourmet, terzo incomodo nella lotta a due che attraversa lo schermo con la follia consapevole e impunita, questa si, della contemporaneità.
Le due figure astratte si scontrano con la normalità di una squilibrio morale che non nulla ha di etico, cosa che appartiene alle basilari nozioni di bene e male. La deriva di Frank e quella dell’essere umano che consapevolmente decide di rinunciare a qualsiasi umanità obbedendo solo agli istinti. Un cane sciolto mimetizzato in una società indifferente arresasi alla constatazione della diffusa banalità del male.
Il film si dipana in tre trame, complesse, intrecciate e risolte, come conviene alle storie criminali, con poche parole e tanta violenza. La storia del cecchino e della banda di rapinatori entra in collisione con la vita dell’ispettore che ha perso un figlio , militare scelto, per il quale il segreto di stato vale più di una spiegazione per lenire il dolore di padre, e di un killer psicopatico.
E’ il caso che sconvolge la vita dei personaggi del noir. Il destino beffardo che li isola nella solitudine della colpa. Gli ideali ai quali essi rispondono sono il perno attorno al quale si realizza la redenzione attraverso l’ espiazione , sempre più dolorosa della colpa stessa.
La domanda che chiude il film e che solo apparentemente rimane sospesa nella fuliggine che incombe sulle vite dei personaggi ma che il realtà reca in seno una risposta ovvia, è la sublimazione di tutto il senso del film.
La tragedia del figlio morto non ferma il comandante Mattei dall’interrogarsi sulle sue colpe, in un barlume di luce attraverso le tenebre, un senso di giustizia più alto della giustizia stessa mette ordine , per un attimo, nel caos. “Mio figlio meritava tutto questo?” .
La carne della carne tradisce anche il ricordo, inquina la memoria e ne disgrega il senso divino. I personaggi dei polar sono condannati alla dannazione. Sempre.
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