Regia di Alessandro Comodin vedi scheda film
Ci sono casi cinematografici che molto spesso coincidono col bluff. Altri che invece sono puri gioielli, doverosamente e meritatamente legittimati dal passaparola critico. In una stagione cinematografica avarissima di uscite in sala come l’ultima lunga estate caldissima che per fortuna volge (finalmente) alla conclusione, “L’estate di Giacomo” di Alessandro Comodin, uscito solo lo scorso venti luglio con un anno di ritardo a riprova della miopia clinica della nostra distribuzione, si staglia come un film-scheggia, alieno dai canoni, preziosissimo. Insignito col Pardo d’Oro “Cineasti del presente” a Locarno 2011, il film di questo regista dalla formazione "scolastica" palesemente esterofila, nella fattispecie franco-belga (ha studiato anche a Parigi e Bruxelles, e si vede), è un esempio residuale di cinema miracoloso, fondato più sull’inanellamento di immagini e sensazioni in piani sequenza colmi di erotismo vellutato e adolescenziale che sull’assillo di una narrazione da imbastire secondo schemi tradizionali. La trama, non a caso, è come avviene in questi casi facilmente riducibile in un paio di righe ma anche molto riduttiva in sé e per sé: Giacomo, un ragazzo ipoudente, e Stefania si conoscono in un’estate speciale, quella in cui il ragazzo tornerà a sentire. Da questo assunto di base di dipana una storia d’amore di disarmante semplicità e tenerezza che vive di immersioni in scenari naturali, momenti condivisi, sentimenti teneri e struggenti. In un’atmosfera tenue che conduce alla scoperta della sessualità del protagonista attraverso il contatto con un’altra ragazza, Barbara, situata sulle stesse corde percettive di Giacomo, una chiusura del cerchio (con un bacio) che nel finale forse ostruisce un po’ gli orizzonti e il respiro della storia ma senza ridurre di un millimetro l’intensità dell’esperienza poetica ed emotiva fino a quel momento vissuta dallo spettatore, al quale è per altro richiesta in più di un’occasione una partecipazione non indifferente al procedere arcano del racconto: per lasciarsi compenetrare d'altronde non basta osservare, occorre “sentire”. E allora ci si immerge nei boschi lussureggianti, nei rumori orchestrati come una sinfonia rara, nelle zaffate di naiveté che Comodin va a cercarsi con la sua camera a mano, con i suoi indugi e le sue reiterazioni, affrontando a viso aperto il calligrafismo estetizzante ma rinnegandolo puntualmente con una regia profondissima che sente l’urgenza di legittimare se stessa scena dopo scena. Non sarà Rohmer o tantomeno Renoir come ha scritto un’entusiasta critica francese, ma la lezione della Nouvelle Vague si sente eccome. In Francia Comodin era già stato selezionato dalla prestigiosissima Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes per un documentario intitolato "Jagdfieber" (La febbre della caccia), un film sulla caccia, i suoi rituali cristallizzati, i gesti assoluti e i suoi sovrumani silenzi. Anche qui il gesto è nobilitato al massimo grado: in un inno all’adolescenza che scoprendosi età adulta perde la sua purezza e si scioglie per sempre sotto il più dolce dei soli estivi, ogni azione dei giovani attori viene immortalata come un furto sacrale e frugale alla spontaneità della vita autentica. Non a caso, infatti, Comodin è per l'appunto un documentarista e “L’estate di Giacomo”, prima di contaminarsi con la fiction, partiva nelle intenzioni dell’autore come un docufilm sulla condizione di sordità di Giacomo, fratello del suo migliore amico che il regista conosceva già da bambino (Stefania invece nella realtà è la sorella del regista). Dunque una storia fortemente personale e fortemente sentita, che mescola arte e vita, lambendo quel naturalismo fanciullesco che costituiva l’essenza primaria e il magma linfatico del cinema di François Truffaut e riempiendolo con la propria vocazione di scarnificato osservatore della realtà. Che poi, è una perifrasi per indicare proprio il ruolo del documentarista elevato al massimo grado, ossia a un livello di poesia sublime che si limita a “seguire” l’evoluzione di una storia reale cortocircuitando realtà e fiction con sfumata delicatezza. E’ un film anche doloroso, a tratti, “L’estate di Giacomo”: la “natura di merda” è spesso leopardianamente matrigna e l’unico rifugio è inizialmente costituito solo dall’isolamento acustico di una batteria da suonare. Poi però il prodigio si schiude, e le sonorità molteplici del film fanno il resto, mirando all’essenza distillata, a ciò che è incontaminato e misteriosamente preservato dalla cecità delirante del mondo sano. In questo complesso ma doveroso sentiero verso la riacquisizione della purezza perduta, di uno dei sensi fondamentali da parte del protagonista ma anche del senso delle cose e del sentimento umano ad esse connesso da parte dello spettatore, la perizia documentaria può insinuare in qualcuno il dubbio dell’indulgenza ricattatoria, specie alla luce del modo di parlare e di muoversi del protagonista che, com’è facile immaginare, rispecchiano in tutto e per tutto i sintomi reali del suo disagio. Ma chi si lascia andare a questa chiave di lettura così facilona e superficiale probabilmente non ha capito proprio nulla. E allora tanto meglio mettere da parte simili aberrazioni e lasciarsi cullare piuttosto dalle note struggenti di “Fifteen years ago” di Dupap, consapevoli di avere davanti il più grande esempio italiano degli ultimi tempi di cinema celestiale e remoto insieme a un altro capolavoro che all’estero hanno sicuramente apprezzato e visto più di noi, “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino.
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