Regia di Milagros Mumenthaler vedi scheda film
Dopo il trionfo al Festival di Locarno 2011 – che comprende anche il Pardo d’Oro a Maria Canale, migliore attrice protagonista – il lungometraggio d’esordio dell’argentina Milagros Mumenthaler è rimasto nell’ombra. Il suo desiderio di aprire le porte e le finestre sul mondo non si è realizzato, come se quel messaggio affidato ad una metafora casalinga, ma dal significato universale, fosse un invito riservato a pochi intimi. In effetti non è facile calarsi in quell’ambiente così introverso ed ermetico, in quelle stanze nelle quali, dopo l’improvvisa morte di Alicia Tauss, una matura docente universitaria, si aggirano smarrite le sue nipoti Marina, Sofia e Violeta. Gli spazi sono liberamente condivisi dalle tre sorelle, eppure sembrano non appartenere veramente a nessuna di esse. Le cose della nonna, dal letto massaggiante ad un antico corsetto, sono oggetti attraenti a cui le ragazze si accostano con un misto di curiosità e circospezione. L’eredità della defunta è un tesoro parzialmente invisibile, circondato da un mistero che fa un po’ paura. Il ricordo è un punto di riferimento condiviso che, però, si rivela scomodo, poiché non pare abbastanza capace da poter accogliere tre personalità tanto diverse, ognuna delle quali ha un proprio modo di affrontare l’inevitabile cambiamento. Si può riempire il vuoto con la noia, stando sdraiate sul divano a guardare una telenevola mentre si aspetta l’amore, oppure si può continuare a studiare fingendo di credere in un futuro migliore, o, ancora, ci si può aggrappare al pragmatismo spicciolo delle faccende domestiche. Negarsi alla realtà oppure attaccarsi saldamente alla terra: Violeta e Marina rappresentano i due atteggiamenti estremi, in mezzo ai quali fluttua, fattiva ma sognante, la disciplinata illusione di Sofia. Intorno a loro si estende una vastità di spunti morti, da raccogliere senza sapere cosa poterci costruire sopra. Forse il domani è da cercare fuori da quel mausoleo, in cui il ricordo finisce sempre, automaticamente, per rivolgersi al passato: il centro di gravità è un garage affollato di cimeli e cianfrusaglie, di foto e di antichità, fra le quali potrebbero trovarsi le risposte decisive: le certezze in grado di riportare un presente indefinito e sconnesso su un comune denominatore scritto nelle origini familiari. Guardandosi l’un l’altra, le tre giovani colgono soltanto le differenze e le distanze che le separano. I silenzi di intesa sono, in realtà, reticenze affondate nel dubbio di trovarsi davanti a una perfetta sconosciuta, da cui è possibile ricevere anche ingrate sorprese. Far finta di niente è un meccanismo di difesa dettato dalla diffidenza: ci si ignora a vicenda e ci si nasconde, perché non si ha niente da dirsi, nulla, almeno, di cui parlare senza timore di scoprire verità dolorose. Se Violeta è un essere palesemente volatile ed incostante, l’apparente coscienziosità di Marina è, a sua volta, avvolta in un comportamento titubante, che lascia trapelare un rifiuto verso la probabile necessità di dover scegliere, operando un taglio netto. La prospettiva di una trasformazione radicale si presenta inizialmente come un refolo che spira da una fessura, e che, solo temporaneamente, si può pensare di bloccare con un foglio di carta piegato. A lungo andare bisogna lasciar entrare il vento, che fa piazza pulita del vecchio e che magari porta la disgregazione. L’unione, a dire il vero, non c’è mai stata: il film coglie i singoli istanti di un rapporto a tre frammentario, fatto più di incontri fortuiti che di confidenza ed affetto. Ciò che rallenta l’evoluzione della storia, ostacolandone la fluidità, è la ritrosia delle protagoniste a volerlo ammettere, prendendo atto della loro reciproca estraneità. Sono donne mature, che, come è naturale, hanno imboccato ognuna una propria strada, senza doverne rendere conto alle altre. Le invidie e le gelosie sono residuati di un’infanzia ormai al tramonto, che, in questo racconto, si va disperdendo lungo le molteplici scie del senso di inutilità provocato dal lutto. Qualcuno, in quelle tre orfane – dei loro genitori non si fa mai menzione – ha voluto vedere un’incarnazione delle nuove generazioni argentine, quelle cresciute nell’era democratica, che si trovano a vivere una libertà nata di recente, da un giorno all’altro, risultante dalla scomparsa di qualcosa, e priva di radici storiche. Ma questo è soprattutto un racconto femminile, perso nella condizione senza tempo delle donne che vivono la vita respirandone le incostanti folate di passione ed orgoglio, e restando eternamente indecise tra la moderna spinta all’autonomia e l’atavico bisogno di stabilità.
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