Regia di Sebastián Lelio vedi scheda film
Fuggire, senza avere un posto dove andare. Arrancare straniti nel nulla. Esattamente come questo film. Un’opera dall’autorialità stentata, indecisa tra enfasi drammatica e minimalismo introspettivo. Un detenuto riesce ad evadere al carcere in seguito al terremoto che, nel febbraio del 2010, colpisce le regioni centrali del Cile. Un sisma catastrofico seguito da un altrettanto devastante tsunami. Il paese è distrutto, le vittime si contano a migliaia. Lo scenario, invaso di macerie e corpi, è il triste deserto che il protagonista attraversa a piedi, con passo deciso ma lento, scoprendo sempre nuove conferme all’idea che non valga la pena di correre, perché intanto tutto è perduto: l’amata moglie, la figlia piccola, l’anziana madre. Un mondo fatto a pezzi, sporcato, buttato a soqquadro. L’uomo avanza e continua a incontrare un vuoto inanimato, frammenti di vite abbandonati come rifiuti, ormai privi di forma, di utilità, di senso. La storia tace e assiste indifferente a quel movimento senza scopo, che procede per inerzia, trascinando, attraverso luoghi sconosciuti, una disperazione talmente lacerante da non avere voce. Manca il fiato per urlare, e mancano le lacrime per piangere. Il dolore è solitario, muto e anonimo. Riesce a prendere un nome e un’espressione soltanto nei momenti in cui si può specchiare nella sofferenza di un altro essere smarrito. Una tigre dimenticata in una gabbia dello zoo. Un uomo che non possiede niente più che un mucchio di pannocchie ed un fardello di ricordi insopportabili. E che predica la necessità di non sapere e non vedere. La morte è un manto freddo che avvolge senza stringere. Si mantiene a debita distanza dalle anime che avrebbero bisogno di essere sentirsi abbracciate. E invece si ritrovano all’interno di una vasta prigione oscura, che chiude la visuale sull’orizzonte del futuro, e costringe ad andare alla cieca, senza punti di riferimento, con la sensazione che nulla mai possa cambiare. Il paesaggio è desolatamente uniforme, un’ottusa ripetizione dello stesso grottesco schema del caos, in cui ogni cosa è sfacciatamente fuori posto, come in un quadro surrealista. Ma qui il mondo rovesciato non è una geniale licenza poetica, un creativo strappo alle regole della logica: è invece solo la definitiva sconfitta dei progetti umani, delle speranze, dell’illusione che la mansuetudine sia la chiave della felicità. Rassegnarsi, accontentarsi di poco è un gioco confortante, che si rompe nell’istante in cui l’universo crolla, spazzando via l’abitudine, gli affetti, le certezze. Ciò che resta è solo fango. Il racconto si impantana, in una noia che è solo la monotonia di una fine che si compie pian piano, ribadendo il suo carattere inesorabile, totale, perenne. El año del tigre fa propria quest’agonia, forse con eccessiva arrendevolezza. E lascia che il pathos annaspi nella stanchezza di vivere senza uno motivo, e nel disorientamento dell’io che si aggira invano in cerca dell’altro. Il suo percorso è una spirale infinita, che converge verso l’irraggiungibile punto di un’ipotetica nuova partenza. È un disegno stilizzato e incolore tracciato su una pagina di carta ruvida e grigia. Un grezzo bozzetto di inconsistenza. Un esperimento vagante, che prolunga ingenuamente l’attesa, fino a trascurare il dovere di guardarsi indietro e tirare le somme.
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