Regia di Nadav Lapid vedi scheda film
Silenzio. La tensione è alta, però manca l’aria. Dove i popoli sono divisi ed inquieti, e dove infuria la guerra, la luce è avara di colori, ed il vuoto è spinto. Grigio è il volto delle zone di frontiera, in cui ci si muove cauti e lenti lungo il perimetro di un muro invalicabile. Israele sopravvive all’agonia della sua anima: lontano dai cliché di comodo delle cronache, dai presunti fervori religiosi, dalle bombe che dilaniano arabi ed ebrei, c’è una terra che si è persa dentro le proprie ideologie, che non hanno retto al logorio della retorica e alla stanchezza della Storia. Ci sono ferite profonde, che restano invisibili, perché sono escoriazioni che non sanguinano. Sono solchi asciutti, e racchiudono il buio delle verità di confine, quelle che rimangono in attesa che il destino, la volontà umana o il senso ultimo delle cose decidano tra la vita e la morte, tra la lealtà e l’inganno, tra il perdono e la vendetta. Nadav Lapid scava a mani nude dentro quell’abisso privo di tempesta, in cui il vento non si sente arrivare, anche se è chiaro a tutti che, da un pezzo, ha cominciato a spazzare via il calore, le illusioni, quelle che sembravano le certezze giuste ed importanti. Yaron è un agente del reparto antiterrorismo, che spesso è fuori in azione, mentre la moglie Nili è prossima al parto. Aspetta la nascita di suo figlio, nello stesso momento in cui si prepara ad uccidere. Intanto Ariel, il suo amico e collega, sta scomparendo a poco a poco, consumato da un male incurabile. Insieme al suo corpo se ne sta andando anche la solidità di quel legame, che si nutriva della fede nella propria missione, dell’unità dei combattenti, della coerenza che non si ferma davanti a niente. Yaron e i compagni lo sacrificheranno, per salvarsi da una condanna. I ventenni Shira e Oded fanno finta di amarsi, per vincere la paura della rivoluzione in cui credono, ma che nemmeno loro, che l’hanno inventata, riescono a capire fino in fondo. Dall’una e dall’altra parte della barricata ci sono pistole che non sparano, che si usano come simboli, per mettersi in posa, per esprimere il proprio potere, per distrarre il prossimo dall’inconsistenza morale della propria funzione. I soldati attaccano, o forse solo si difendono, ma manca un obiettivo da raggiungere. Il nemico rimane sfuggente e occasionale, come casuali e senza motivo sono le vittime, i ragazzi ribelli che non sanno quello che fanno, i civili palestinesi sterminati dai proiettili vaganti, un’automobile qualunque presa di mira da una banda di giovani vandali. L’orizzonte è deserto, e le radici sono solo un remoto ricordo. Lascia perdere Herzl, il fondatore del sionismo. Il padre di Oded, molti anni fa, ha abbandonato la lotta. Il tempo passa, ed è questa la vera sventura. Il suo decorso è ridotto ad un ticchettio sordo ed uniforme, che fotocopia gli istanti, uno dopo l’altro, senza costrutto, e in un attimo li brucia, senza un perché. È il compleanno di mamma. Solleviamola una volta, per ogni sei anni, e una volta per l’anno che viene. La festa si esaurisce così. L’orologio è fermo, in fondo, anche per quel bambino che ancora non viene al mondo, e per quell’uomo che continua a resistere alla malattia. Ma basta un secondo qualsiasi per fare finire tutto: la gioia di un ricevimento di nozze, l’esaltazione di un’azione politica, la commozione di un funerale. Dove non esiste evoluzione, nulla si conclude, ma, fatalmente, tutto si interrompe.
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