Regia di Morten Tyldum vedi scheda film
In (involontaria) esplorazione del cinema scandinavo, tappa obbligata, oggi come oggi, è la Norvegia. Notoriamente terra di fiordi, pescherecci, legnaioli e “valchirie” niente male, da qualche anno a questa parte sembra che da quelle parti sappiano fare bene anche qualcos’altro: tipo Headhunters.
Una storia semplice, a ben vedere. Succede che un ruspante galletto yuppie (Roger Brown; il bravo Aksel Hennie), che possiede tutto e di più (ma le cui mani bucate lo costringono a fare i doppi turni), si ritrova invischiato in un grosso, grosso guaio (ben più spiacevole di quanto potrebbe apparire a prima vista). Non tutto il male vien per nuocere - è, nondimeno, la lezione che impartisce il film - sicchè, dopo mille funamboliche ed adrenaliniche peripezie, scopriamo che, nella vita, certe “misure”, spesso e volentieri, sono più che sufficienti (ad ottenere le gratificazioni cui tutti ambiamo).
Headhunters è indubbiamente un buon thriller per un molteplice ordine di ragioni: la non convenzionalità della trama principale; la follia un po’ grottesca (accidentalmente pure “gore”, ciò che io, però, avrei decisamente evitato) della trama secondaria; un connubio scenografico impeccabile (interni ed esterni - sempre, onestamente, dipinti a tinte fredde - si equilibrano a dovere); un’elevata escursione dei registri narrativi (dapprima, lento a carburare - ma non gliene faccio una colpa, anzi - quando il ritmo aumenta la frequenza non ce n’è per nessuno), nondimeno legati da un fil rouge che reca seco due qualità: tensione e non detto.
L’ondata di entusiasmo scaturita dalla visione del film consente di passare sopra le tante, più o meno vistose, discrepanze dello script. Perché, a volte, non ci si può che accontentare di una certa coerenza di fondo. Come quelle volte in cui, mentre la tempesta infuria là fuori, a prevalere è il desiderio di raccoglimento attorno al calore del focolare domestico.
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