Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
«Non ci furono due bombe» ha scritto Adriano Sofri sul “Foglio” del 27 marzo 2012, smentendo sia l’ipotesi di Cucchiarelli sia (in parte) la libera trasposizione di Marco Tullio Giordana. Che, di fatto, raddoppiano attentati, mandanti ed esecutori della strage di Piazza Fontana. Anche con Pasolini, un delitto italiano (1995) il regista milanese invitava pubblico, critici e cronisti a rileggere e rivedere le sentenze sul brutale assassinio del poeta, la figura di Pino Pelosi, le troppe lacune accumulate durante le indagini. E così con Maledetti vi amerò (1980) e La caduta degli angeli ribelli (1981), revisione tra sarcasmo e melodramma di un militante sessantottino disilluso, di una borghese invasa dall’inquietudine, di un brigatista condannato a morte dai suoi stessi compagni di lotta. La lotta (appunto), a distanza di svariati lustri, continua. Anche se i modi e le maniere, i pugni e i titoli cubitali sparati dalle pagine della stampa interventista sono mutati. Con Romanzo di una strage Giordana, in sostanza, trasloca in immagini il celebre «Io so, ma non ho le prove» di pasoliniana memoria. Ricordandoci contemporaneamente che Pinelli e Calabresi sono morti, e che ancora oggi non sappiamo esattamente come. Non a caso i due omicidi (difficile credere che l’anarchico si sia suicidato) sono inesorabilmente fuori campo. Come fuori dalla scena sono rimasti migliaia di fatti e documenti, testimonianze e approfondimenti che - in una versione alla La meglio gioventù (2003) - avrebbero permesso, soprattutto a chi in quegli anni non c’era, una maggiore comprensibilità. Trattenuto, algido, zeppo d’ombre (la funzionale fotografia è di Roberto Forza), volutamente didascalico, quasi un contraltare brechtiano all’accentuata visionarietà di Sanguepazzo (2008), Romanzo di una strage non consente, infatti, di immedesimarsi con nessuno, lasciando libero il campo degli occhi e il pensiero dello spettatore. Un film importante, nonostante i difetti (come i mimetismi alla Giuseppe Ferrara), con attori maturi (malgrado non sia piaciuto a Gemma Calabresi, Mastandrea è forse il più sorprendente) e una Milano, una classe politica, un’atmosfera da guerra civile lontane ormai nel tempo. Senza nostalgie.
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