Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
Nell'articolo dal titolo Che cos'è questo golpe? Io so, altrimenti noto come Il romanzo delle stragi, pubblicato sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, Pier Paolo Pasolini scrisse: «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia».
Marco Tullio Giordana (che in passato aveva stupito per il perfetto equilibrio tra passione ed impegno civile che fece del suo I Cento Passi uno dei migliori film italiani degli anni '90, nonché per l'enciclopedico resoconto di quasi mezzo secolo di storia nazionale ne La Meglio Gioventù) nel suo Romanzo di una strage s'è tolto gli abiti dell'intellettuale per calarsi in quelli del politico, s'è posto cioè l'obiettivo di parlare di un tema scottante e scomodo (l'autunno caldo culminato con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e ciò che ne seguì, dalla morte per defenestrazione dell'anarchico Giuseppe Pinelli avvenuta tre giorni dopo, all'omicidio del commissario Luigi Calabresi del 17 maggio 1972, sul quale il film si chiude) cercando una vita di mezzo che non esiste, senza dire, ma neanche suggerire, ciò che (per citare ancora Pasolini) l'intellettuale sa pur non avendo prove, preferendo piuttosto edulcorare il tutto, aggiungendo alla già lacunosa versione ufficiale dettagli cervellotici e discutibili che rendono la matassa volutamente insolubile.
Giordana è attento alla costruzione del meccanismo narrativo ma si guarda bene dall'osare, preferendo dar fiducia ad un testo (Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli) che accampa una teoria cerchiobottista (secondo cui non ci fu una sola bomba ma due che si sovrapposero, una di matrice anarchica e l'altra neofascista) largamente ed autorevolmente contestata, e celando dietro la strombazzata aspirazione al film-verità un tutt'altro che scomodo thriller 'democristiano', reticente, normalizzante e buono per tutte le stagioni: perfettamente omologato ad una strategia della distensione che sa di resa, getta fumo negli occhi dello spettatore proponendo dei fatti una visione politicamente corretta e rigorosamente bipartisan che funziona poco anche dal punto di vista strettamente cinematografico, risultando un inguacchio prolisso e congenitamente incompleto che al finale aperto ci arriva senza chiudere mai nulla, e che nel suo essere strutturalmente didascalico e verboso finisce per concentrarsi quasi esclusivamente sui dialoghi mancando di sostanza nella definizione dell'atmosfera rovente che segnò quegli anni.
E se da un lato non serve a modificare il giudizio su un film sbagliato l'apporto professionalmente impeccabile di una manciata tra i migliori attori italiani, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino su tutti, le cui buone prove sono falcidiate dalla pochezza di una sceneggiatura (opera dello stesso Giordana con Stefano Rulli e Sandro Petraglia, per la quarta volta al suo servizio) che taglia i caratteri dei loro personaggi (rispettivamente Calabresi e Pinelli) con l'accetta, disegnandoli pressoché come dei santi in un mondo di impostori, dall'altro la sola attenuante della cattiva scrittura non basta a salvare dalla bocciatura l'insopportabile Fabrizio Gifuni, che, nella parte di Aldo Moro, si propone in una goffa imitazione del Roberto Herlitzka di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio con esiti a metà tra il patetico e l'irritante.
La domanda, in conclusione, sorge spontanea: ha senso, ad oltre quarant'anni di distanza, pretendere di girare un film su uno degli episodi più bui dell'intero dopoguerra italiano se si ha paura di rovistare sotto i tappeti o si ritiene di essere oggettivamente impossibilitati a farlo?
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