Regia di Jung-bum Park vedi scheda film
Seoul è ricca e coloratissima. È piena delle luci al neon delle insegne dei negozi e dei locali notturni. Non è però così che appare agli occhi del giovane Jeon Seung-Chul. Eppure quello sfarzo e quell’odore di libertà dovrebbero piacergli molto, a fronte dei chilometri che ha percorso, rischiando la vita, per poterli raggiungere. Era quella la sua meta, quando ha deciso di scappare dalla triste miseria della sua terra natale, quello sperduto villaggio rurale della contea di Musan in cui regnava la fame e si poteva arrivare ad uccidere pur di mettere le mani su un sacco di grano. Seung-Chul è un disertore nordcoreano. Un immigrato che si vergogna delle proprie origini, e per questo vive appartato, confortato soltanto dalla presenza di un suo compaesano impegnato in attività poco chiare, e di un cane randagio, un cucciolo abbandonato da un venditore ambulante. Nei vari mestieri con cui cerca di sbarcare il lunario, Seung-Chul è un vero disastro, come lo è nei rapporti sociali, e quando il suo compare finisce nei guai per una questione di soldi, la situazione, per lui, prende una piega estremamente pericolosa. Il ragazzo, di fatto, è un perseguitato, che viene pestato per strada, cacciato dai datori di lavoro, guardato con diffidenza o disprezzo da una società nella quale non è riuscito ad integrarsi. La sua emarginazione è una disperata incapacità di essere uguale agli altri, vivendo serenamente la propria identità, senza essere continuamente ossessionato dalla paura di doversi nascondere. Quel ragazzo non è mai uscito mentalmente dalla propria condizione di clandestino, proveniente da una indecorosa povertà e costretto ad infrangere la legge per trovare un possibile riscatto. La sua fuga, iniziata forse più come un salto nel vuoto che come un viaggio della speranza, non ha saputo sfociare in un sogno di rinascita ed in un concreto progetto di trasformazione esistenziale. Il percorso di Seung-Chul, rimanendo nell’ombra, si incrocia fatalmente con quello della delinquenza e si muove lungo il sottile crinale che separa la semplice solitudine dell’incompreso dal degrado materiale del reietto, del vagabondo, del disadattato. Quel giovane vorrebbe rendersi indipendente, cercare la propria strada, ma sul suo cammino incontra soltanto ostacoli insormontabili, che richiedono troppo coraggio oppure sono eccessivamente cattivi. Il corpo estraneo non si amalgama con il tessuto circostante, che continua a considerarlo come un fastidioso intruso, da cui è meglio difendersi. Lui, dal canto suo, si guarda intorno e non capisce, vorrebbe darsi da fare ma non si sente all’altezza del compito, nemmeno quando si tratta solo di recitare una preghiera o cantare una canzone. Seung-Chul non è in grado di fare ciò che per i suoi coetanei risulta banale, come, ad esempio, stare in compagnia o amare una donna. Sono cose naturali che nessuno pensa di dovergli insegnare. E lui soffre per non poterle imparare, per quanto grande sia la sua volontà di impegnarsi. È un bambino dentro il corpo di un adulto: un neonato piombato lì da un altro mondo, abituato ad affrontare selvaggiamente un’emergenza senza fine, ed incapace di adeguarsi alle aspettative, più complesse e raffinate, della civiltà del benessere. The Journals Of Musan è la cronaca di un’esistenza che si svolge al di sotto della soglia della normalità, avvolta nell’insicurezza e perennemente minacciata dal fallimento: un uomo si trova forestiero in mezzo ai suoi connazionali, a causa dello di stato di segregazione in cui è cresciuto. È stato tenuto artificialmente indietro rispetto all’avanzare della Storia, e ciò lo ha reso timoroso della novità e refrattario al cambiamento: un essere mutilato della capacità di evolversi, ed il monumento in carne ed ossa del dramma di un Paese diviso da una politica ottusa e guerrafondaia.
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