Regia di Oliver Stone vedi scheda film
https://www.youtube.com/watch?v=ELKzmZK5Dec&list=PLohYzz4btpaTuqTragj8TRYFZ2-Yhs-AR
Un toccante dramma sul più autentico significato della parola “guerra” (firmato dal quello straordinario “documentarista” della realtà che è O.Stone), Nato il 4 luglio propone la sua tagliente invettiva antimilitarista attraverso la descrizione, declinata per specifiche tappe, della vita di un giovane americano; uno qualsiasi. Uno come noi:
1° fase. Indottrinamento.
Durante la beata e spensierata età della innocenza (infanzia prima e giovinezza poi) il giovane americano (ben più di una scommessa; una promessa, piuttosto. Una rosea ipoteca sul futuro) riceve un’educazione coerente con i vincenti valori della sua amata terra. Amore incondizionato per Dio e per la Madrepatria… e disprezzo per tutto ciò che possa in qualche modo essi mettere in ombra (sbrigativamente liquidato sotto la facile etichetta del “comunismo”). Gli insegnamenti che riceve detergono e plasmano la sua anima a immagine e somiglianza del suo paterno educatore e nulla e nessuno - neanche inquietanti presagi (la sfilata di reduci disabili vista da bambino, la sconfitta al match di lotta greco-romana, il tentennamento del padre che sa cos’è la guerra e se le sue cicatrici non si vedono è perché le ha tenute ben nascoste) - può scindere ciò che egli ha forgiato come un unico elemento (l’anima dei suoi “figli” e i sacri valori della tradizione che proliferano da secoli in quelle lande);
2° fase. Sacrificio.
Al giovane americano vengono sottratte bandierine, dadi e cartine geografiche e gli viene regalato il suo nuovo migliore amico. Una dotazione militare di tutto punto, allo scopo di adempiere alla nobile missione affidatagli: esportare libertà e democrazia sulla punta delle baionette negli posti più disparati (e disperati). Certo c’è consapevolezza del rischio; è un compito duro, per veri uomini (i Marines nella fattispecie). Ma il giovane americano, forte della rigorosa, ma ben impostata educazione ricevuta, saprà mettere a frutto gli insegnamenti appresi e portare a compimento, con successo e onore, la sua missione. La vittoria incondizionata. Orbene, si parte… ma se si torna, a quale prezzo? Se la vittoria non ne ha uno, qual è quello della sconfitta? L’impatto con la realtà nuda e cruda è durissimo. Il nemico avanza (ma i vietcong non verranno quasi mai inquadrati. Contro chi, o cosa, combatte il giovane americano è un triste mistero che solo il tempo potrà svelare), la carneficina infuria e intanto urla e imprecazioni varie offuscano la mente e preannunciano l’inevitabile. Sangue. Sangue dei propri “fratelli” sulle proprie mani e sulle vesti, fino a quel momento, intonse. Chi non lo ha vissuto sulla propria pelle può solo tacere di fronte a cotanta mattanza corporale e morale;
3° fase. Smarrimento.
Il giovane americano deve fare i conti con gli strazianti e tangibili segni della guerra. La sua integrità psico-fisica è oramai compromessa. Chiazze nere - indelebili e dalle forme terrificanti - insozzano la sua veste bianca di quando era un’aitante promessa. E non vi è rimedio. Si tenta di sovrapporvi un soprabito adorno di luccicanti distintivi e lustrini vari, ma è un palliativo che lascia il tempo che trova. Implacabilmente, torna in mostra la veste impura, e lo farà per sempre. E’ uno shock devastante. Il giovane americano realizza di essere stato sospinto sull’orlo di un baratro e capisce di avere, davanti a sé, due sole strade da percorrere. Agire in maniera coerente con la piattaforma assiologica del sistema che, dapprima, lo ha allevato (dandogli l’illusione del candore della sua veste) e, poi, lo ha bruscamente svegliato dal sogno; in tal caso, capirà di doversi togliere di mezzo. Suicidandosi in un sudicio ricovero per reduci (gestito, tra l’altro, da gente di colore, all’epoca al gradino più basso della piramide sociale) o, nella migliore delle ipotesi, scappando in Messico a sperperare la propria pensione di guerra nei bordelli locali.
Oppure…
4° fase. Maturità.
Il giovane americano può, altrimenti, accettare la propria nuova identità; la sua diversità (rispetto al modello di pensiero dominante) e, anzi, decidere di portarla, con dignità e coraggio, all’attenzione dell’opinione pubblica. Il giovane americano può, cioè, scegliere di portare la sua esperienza, la sua stessa vita al cospetto della società che diceva di averlo tanto amato (e dice di farlo ancora) per smascherare l’infida illusione (un tessuto intonso e candido non può sporcarsi di nefandezze indelebili. L’onore e la gloria bastano a ripagare ogni debito di sangue e, comunque, vivranno per sempre) che da troppo tempo ormai sottende tutto l’universo di valori di un’intera Nazione (e che è stata perpetrata ai danni di un’intera generazione di giovani come lui), così da poter dare un senso alle belle parole con cui era cresciuto. Così da poter accettare di ritornare in patria a testa alta. Solo a quel punto, l’ “uomo” americano potrà dire, con sentita soddisfazione, di essere, davvero, “tornato a casa”.
La storia di una tragedia generazionale annunciata, dunque; piena di retorica (cui l’ottima colonna sonora di J.Williams si presta volentieri) e scandita da un evidente (forse, anzi, invadente) didascalismo, ma capace, nondimeno, di suscitare emozioni così forti e profonde, da far dimenticare ogni cautela nel giudizio.
Inevitabilmente alto.
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