Regia di Jane Campion vedi scheda film
L’arte che si impara da bambini, coltivandola in famiglia, con la fantasia, la cultura, la disciplina, e anche con il dolore. La storia della scrittrice neozelandese Janet Paterson Frame (1924-2004) è una favola che cresce con la sua protagonista: una ragazzina paffutella e goffa con un criniera riccioluta di capelli rossi, che ci mostra una maniera insolita, ma estremamente poetica, di essere un enfant prodige. Essere l’eroina di un libro per l’infanzia, una bambolina buffa, bizzarra, colorata è l’anticamera della gloria romanzesca, quella che consegna anche la follia, purché tragica e geniale, all’empireo della letteratura. In questo caso la consacrazione avviene, invece, senza furia né clamori, entro la cornice della modestia, di un ipotetico disturbo mentale che è solo una patologia silente ed umiliante, eppure è una fonte di energia sufficiente a mantenere accesa la fiamma dell’immaginazione. Il suo carburante è la tensione tra un’anima particolarissima e un ambiente convenzionale, che pure, per la ragazza, è un punto di riferimento irrinunciabile per realizzare le sue aspirazioni. La personalità di Janet – che molti chiamano Jean – si forma abituando il cuore a contenere le sue passioni fuori dal comune, rendendo la sua straordinaria sensibilità compatibile con una normale vita di alunna, poi di studentessa e infine di insegnante. I suoi sogni e il suo sapere la allontanano da una realtà con la quale è comunque costretta a rapportarsi, e questo contrasto da un lato la rafforza nei suoi propositi, dall’altro lato, però, aumenta la sua fragilità. Jean vuole guardare al mondo standosene in disparte, senza essere a sua volta guardata. È religiosamente innamorata della propria diversità, ma non sopporta che essa diventi oggetto di curiosità. Eppure il destino non le consente di restare invisibile, perché, quasi a volerne a tutti i costi sottolineare l’eccezionalità, la bersaglia di lutti familiari, delusioni sentimentali e di crudeli terapie psichiatriche. Janet si ritrova suo malgrado al centro di un’attenzione di cui non capisce né il motivo, né la natura; e il film di Jane Campion riproduce la disperante unilateralità della sua condizione restituendoci, della sua presunta schizofrenia, soltanto la metà in chiaro, quella lucidità in cui la donna è presente a se stessa, mentre si vede inspiegabilmente trattata come una pazza. D’altronde i suoi occhi sono due finestre di ingenuità, che inquadrano l’esistenza attraverso il vetro limpido della purezza interiore, dell’accettazione di tutte le forme in cui può presentarsi il bene della vita. La sua amicizia e convivenza con l’anziano ed eccentrico Frank Sargeson ne sono l’esempio lampante. Questa visione lineare, mai contaminata da orpelli interpretativi, è la stessa adottata dalla regia, che si ferma al piano narrativo, per rispettare il modo in cui la stessa Janet si racconta: le fonti sono i suoi tre volumi autobiografici, che corrispondono alle tre parti in cui è suddiviso il film, To the Is-Land, An Angel at My Table, The Envoy From Mirror City, riferiti, rispettivamente, alla sua infanzia, agli anni della malattia, al viaggio in Europa. La fotografia è una semplice gioia di colori, in cui si riflette la sua stravaganza brillante eppure sobria, fatta di un’eleganza mai appariscente, che non è basata sulla ricercatezza, bensì sull’equidistanza tra la grossolanità e l’affettazione. Janet è una donna che, in fondo, si piace proprio per la sua mancanza di esigenze, per la sua notevole adattabilità: che non è soltanto una bella qualità, ma anche una risorsa preziosa, che le ha permesso di sopravvivere alle situazioni più difficili. Janet non cerca l’intensità, la trova sempre e comunque, nelle piccole cose, che, nella loro limitatezza, suggeriscono un’intimità riservata a pochi, come quella di uno stanzino angusto in cui ci si ritira per restare soli con la propria ispirazione. Andare ad occupare solo i posti in cui entriamo di misura è, forse, il segreto per ottenere, sia, pur con l’affanno, una prima approssimazione della verità. O, per dirla con le parole di Janet: Una scrittrice deve rimanere arroccata su di sé e sul proprio giudizio, per non essere spazzata via dalla marea o affondare nella terra che trema: deve esistere un luogo inviolato in cui le scelte e le decisioni, per quanto sbagliate, sono esclusivamente sue, e dove la decisione è individuale e solitaria come lo sono la nascita e la morte. [Da: The Envoy From Mirror City].
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta